"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

23 luglio 2012

Ivan il terribile e la cicca maledetta

Lo Bello voldemor

di Antonio G. Pesce - Quello che Ivan Lo Bello ha detto sullo stato di salute della finanza siciliana, ha innescato qualcosa di più devastante d’un fuocherello tra le sterpaglie.

Non è proprio cenere, anzi è cicca dire che la Sicilia è vicina all’insolvenza, e che, in pratica, l’Italia si ritrova una Grecia in casa. Che vuoi? Il tempo è quello che è: Scipione, Caronte, Minosse e lo spread che sta facendo terra bruciata, in Europa, davanti all’avanzata di Angela per la conquista di nuovi “spazi vitali”. In un attimo, il boschetto della politica italiana è andato in fiamme. Da lì, come conigli non ancora braccati dalle doppiette (o forconi) del popolo, sono usciti tutti scottati.

Il Pdl, innanzi tutto – seppur da quelle parti si gioca a fingere di essere stati, negli ultimi quattro lustri, dall’altro capo del mondo. Lombardo non sarebbe mai arrivato a Palazzo d’Orleans, senza che il primo partito dell’Isola – primo negli ultimi 20 anni – non lo avesse appoggiato. Certo, gli ultimi anni sono stati quelli dell’imboscata sovietica, e tuttavia qualche tara la faccenda rischia di aggiungerla al già carico piatto dell’indifferenza moderata verso il partito. Sì: in Sicilia i moderati sono, per gran parte, i raccomandati del sistema di ieri, che si sono rigiocati l’ufficio, l’incarico e l’appalto con i potenti di oggi. Vedovi del vecchio Pentapartito, dal quale hanno ottenuto posti per sé e per successive due generazioni. Tuttavia, se salta il banco, salta il gioco.

Il Pd non poteva che restarci altrettanto male. Pensavano fosse amore, e invece si è rivelato un carrettino, peraltro manco buono. L’unica armata capace di perdere una battaglia, che perfino l’avversario le dava per vinta. Salire sul carro del vincitore ci può stare in politica, ma averne fatto la ruota di scorta che senso ha avuto?  Anche loro rischiano. Bisogna tappare il buco – se il buco c’è. (Ma tanto sono sicuri di quello che hanno fatto al governo della regione, che già, per una semplice dichiarazione, hanno cominciato a tremare).

Infine, l’Udc. Il primo partito a chiedere il commissariamento. Perché è così che finisce la seconda repubblica: con la fine della democrazia. E noi a pagare la fiducia incondizionata di Casini&Co. a Cuffaro, Berlusconi e Lombardo. Non c’è altro da aggiungere: loro c’entrano, eccome.

Non sappiamo sulla base di cosa Lo Bello abbia detto quel che ha detto. Il fatto che, in vita sua, abbia saputo distinguere fra il diritto dello Stato e l’angheria della mafia gli fa onore, ma non lo rende immune dai colpi di sole dell’egocentrismo. Magari non si è reso neppure conto della gravità – oggi, 2012, epoca di rigore teutonico – di quanto affermato.

Resta il fatto che, proprio al centro del boschetto, c’è la polveriera. Tutti ne fanno buona guardia, sperando di poter preparare tranquillamente l’avanzata elettorale del prossimo anno. E Ivan rischia di gustare loro la festa.  

Pubblicato il 21 luglio su Catania Politica

20 luglio 2012

I ventenni ci portano sfortuna

paolo-borsellino
di Antonio G. Pesce - Tante cose non cadano al momento giusto. Questo ventennale della morte di Paolo Borsellino non poteva essere ricordato in modo peggiore. Lasciamo perdere tante cose strettamente giuridiche, e tralasciamo pure giudizi politici in un frangente in cui rischiano di essere ingenerosi verso chi, alla ben’in meglio, ha dimostrato una certa responsabilità e tanta sobrietà nella gestione del potere (poi, l’Italia è questa, e con questa società bisogna fare i conti).

Quello che inquieta è la possibilità, non remota, che tante domande non trovino, infine, alcuna risposta. Se di Falcone si disse che era stato isolato (anche da chi, poi, divenne campione dell’antimafia!), di Borsellino si teme qualcosa di più, che sia stato, addirittura, ‘epurato’. A temerlo la stessa magistratura, che in questi anni è stata difesa anche con toni apocalittici davanti a possibili ingerenze.

Non è necessario scomodare il nostro Machiavelli, ma solo il buon senso, per obiettare ai «puristi della politica» (e non già della lingua, avendo alcuni di loro  il congiuntivo bislacco), che la sincerità, a volte, è un fardello troppo pensate per chi porta anche quello delle istituzioni. Non sempre tutti possono sapere tutto, e chi ha retto le redini dello Stato in un momento di profonda crisi istituzionale, come fu quel 1992, non può sempre andare per il sottile. Tuttavia, proprio perché non è in questione il buon funzionamento della prostata (con annesso ulteriore armamentario) di un presidente del Consiglio; neppure quello che un capo dello Stato, nell’esercizio delle proprie funzioni, è venuto a sapere da altri, ma se questi altri godano di una immunità e, soprattutto, se una classe dirigente, oltre ad aver impegnato il nostro futuro al banco dei pegni dei Mercati, abbia pure svenduto la nostra dignità battendo sulle strade di Corleone; proprio per questo, almeno una volta tanto, avremmo potuto evitare di risolvere le cose alla maniera dell’Azzeccagarbugli.

Troppe coincidenze storiche. Anche in questo caso. Come nel ’92 siamo in un momento di profonda crisi, che è crisi economica, politica, istituzionale ma, soprattutto, etica, cioè legata a ciò che sentiamo, come popolo, di dover ancora essere. Come nel ‘600 di Renzo e Lucia siamo divisi tra noi, conquistati da altri e stretti, come lo era don Abbondio, tra i vasi di ferro di un potere sempre più controverso (ed è dir poco) da un lato, e un marasma burocratico e legislativo dall’altro.

Dio ci assista. E scuota i giovani di questa terra, come scosse la mia generazione in quell’estate del ’92. Ci aiutino loro a ridestare vecchie fiamme. Non abbiamo più quattordici anni, ma una ventina di più, passati a studiare per lauree che non stanno servendo a sfamarci e in impegni politici che ci hanno profondamente delusi. 

Pubblicato il 19 luglio 2012 su CataniaPolitica.it

2 luglio 2012

LA FEDE CATTOLICA DI GENTILE NEL BALUGINIO DEL PENSIERO MODERNO - di Piero Vassallo

Di seguito la recensione di Piero Vassallo al mio volume su G. Gentile. Pubblicata su Il Culturista, e ripresa da Riscossa Cristiana
 


Giovanni Gentile professava la fede in Gesù Cristo secondo un'intenzione genuina, purtroppo associata al convincimento che non fosse ragionevole e sostenibile la strenua opposizione cattolica al soggettivismo di Kant e di Hegel. Riteneva, infatti, che i sommi autori della modernità avessero avviato la purificazione e iniziato la perfetta restaurazione della Verità rivelata da Gesù, vero Dio e vero uomo. Coerentemente assegnava al proprio pensiero la missione di riformare l'idealismo hegeliano per renderlo finalmente capace di condurre la dottrina cristiana alle dimenticate e censurate verità delle origini.
libero pesceNel saggio "L'interiorità intersoggettiva dell'attualismo Il personalismo di Giovanni Gentile", edito in questi giorni dalla romana editrice Aracne, Antonio Giovanni Pesce, ammiratore e acuto interprete della filosofia gentiliana, sostiene, appunto, che, secondo il filosofo di Castelvetrano, "La modernità è la scoperta della dignità umana. Lenta, graduale, ma il cui seme è stato piantato dal Cristianesimo. E la filosofia moderna è l'appropriazione critica del deposito del Cristianesimo, lo svolgimento razionale della nuova verità, che lo spirito, correttamente inteso infine dall'attualismo, opera su un contenuto ancora intriso di mitologismo".
A conferma della sua tesi, Pesce cita un testo in cui Gentile, dopo aver sostenuto che la separazione del divino dall'umano - ossia l'affermazione della trascendenza di Dio - è negata per la prima volta proprio dal Vangelo, conclude che "filosoficamente la teologia cristiana rimane impigliata nella rete del platonismo e aristotelismo; e quando la filosofia moderna proseguì l'opera che essa aveva iniziata di intrinsecare il divino coll'umano, le si volse contro nemica; e fissa ormai nella tradizione de' suoi istituti, s'è poi straniata per sempre, irrimediabilmente, dal pensiero moderno".
In buona fede, quantunque prigioniero dell'abbagliante trionfalismo dei moderni, Gentile riteneva legittimo il passaggio dalla verità sulla trascendenza di Dio alla fragile opinione trascendentalista. Coerentemente tentava di rassicurare i critici di parte cattolica affermando l'ispirazione ortodossa della dottrina dell'Io trascendentale: "Chi non ha pace se non gli si assicura una Realtà trascendente, abbia pur pace: questo Io, in tanto è il nostro Io, in quanto trascende l'uomo e tutta la natura. Soltanto che produce la natura e l'uomo, come la sua propria realtà. E perciò meglio che trascendente si denomina da un pezzo a questa parte trascendentale poiché il suo essere trascendentale non toglie che sia immanente all'esperienza quantunque da essa profondamente distinto e diverso".
Pesce sostiene, azzardando,  che in questo brano Gentile parla del Dio dei cristiani. Certo è che questa era la sua personale convinzione.
La filosofia di Gentile era concepita per indirizzare la rivelazione cristiana alla sua presunta origine immanentistica, in ultima analisi per promuovere la separazione della teologia dall'idea della trascendenza divina, giudicata avventizia e spuria, ossia risultato del contagio platonico-aristotelico della verità evangelica.
Se non che la trascendenza di Dio, fu stabilita da San Tommaso, che confermò, con magistrale rigore, la nozione biblica di Dio Creatore, unificando ed elevando le frammentate e intermittenti nozioni di Platone e di Aristotele, ad esempio l'idea di partecipazione e la dialettica atto-potenza.
Nel saggio sull'enciclica Pascendi, Gentile sostiene che la sua filosofia contiene le verità confusamente cercate dai modernisti. Oggi si può affermare, quasi a chiarimento delle più arcigne espressioni dell'attualismo, che Gentile ha anticipato la svolta antropologica della teologia tentata da Karl Rahner, l'autore di una tesi incautamente accolta in un documento del Concilio pastorale Vaticano II: “Poiché in lui [nel Verbo incarnato] la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata ad una dignità sublime.  Con l’incarnazione [infatti] il Figlio di Dio si è unito in certo modo (quodammodo) ad ogni uomo[1].
Se non che la modernità è stretta in una tenaglia sulla quale agiscono tensioni contrarie ma in qualche modo convergenti: l'esegesi di Hegel elaborata da Alexandr Kojève, un autore che ha fatto salire in superficie il fondo oscuro e mortifero dell'idealismo, e il tomismo speculativo di Cornelio Fabro, che ha confutato la tesi heideggeriana intorno all'oblio dell'essere, dimostrando che San Tommaso ha affermato, in perfetta solitudine, il primato dell'essere sul pensiero.
La filosofia di Gentile, pertanto, deve essere considerata alla stregua di un segnavia piantato al bordo di un sentiero ultimamente percorribile solo a ritroso, cioè nella direzione da Hegel e Kant a San Tommaso.
La caducità della riforma teologica non abbassa tuttavia la statura morale di Gentile, uno fra i più nobili protagonisti della tragedia provocate dal Novecento filosofante.
Gentile, infatti, tentò di attenuare l'errore dei moderni con puntuali riferimenti al cuore cristiano che pulsava nel pensiero di Pascal. Opportunamente Pesce cita un brano del "Sistema della logica", nel quale si legge un progetto di vita orientato a dare un nuovo e più ampio respiro al razionalismo:  "Un cuore bensì sarà vinto da una ragione, ma non perché il cuore sia mai destinato a soccombere nella lotta, sì perché la ragione vince sempre se stessa. Anzi è un'eterna vittoria su se stessa".
Di qui un'esistenza orientata a vivere secondo l'imperativo dell'altruismo: "Finché non si ami il prossimo nostro come noi stessi e non si vegga perciò tra noi e il prossimo la relazione stessa che tra noi e medesimi, il nostro prossimo non sarà veduto veramente come tale".
Gentile obbedì all'imperativo del cuore, che lo elevava al di sopra del gelido e feroce Assoluto contemplato da Hegel e dagli hegeliani. Il professore Ketteler, che dal filosofo italiano fu soccorso nel pericolo e nell'indigenza, poté affermare legittimamente che l'assassinio di Gentile fu un parricidio. Gli italiani consapevoli di vivere dopo il tramonto della filosofia moderna, nella figura dell'uomo Gentile possono finalmente riconoscere un padre della loro patria.




[1] “Cum in Eo natura humana assumpta, non perempta, eo ipso etiam in nobis ad sublimem dignitatem evecta est.  Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo Se univit”.