"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

12 marzo 2012

Domanda politicamente fatidica


Si è persa tanto la trebisonda, che difficilmente ci si fa più caso. Ma, a leggere giornali, ascoltare giornalisti, subire politici, si ha l’impressione come se qualcuno stesse giocando col fuoco.
Nessuno nasconde l’opinione, divenuta comune, che la democrazia non ha più le forze per farsi guida della nazione. Parlo dell’Italia, ovviamente. Ma forse che in Francia le cose vadano meglio? E non è stata forse la signora Merkel, cancelliere tedesco, a non voler che l’Europa sganciasse quei pochi spiccioli che servivano a salvare una zoppa Grecia, quando un anno e mezzo dopo, e dopo moltissime umiliazioni ad uno stato membro, l’Unione ne ha dovuti sborsare dieci volte tanto per rianimarsi tutta intera? La signora cancelliere allora aveva elezioni in casa. Non voleva perderle. Ma la Germania ha perso la propria dignità di paese guida del Vecchio Continente: siamo ciechi in mano a ciechi.
Che la democrazia abbia ceduto il passo alla demagogia è fuori di dubbio. Lo dicono tutti quelli che fanno l’opinione pubblica. Soltanto che, molti di loro, tra un caffè e una sbirciata al decolté della conduttrice televisiva, non s’accorgono di gettare benzina sul fuoco delle passioni.
Perché eleggere tanta gente, quando ne basterebbe pochissima con poche idee ma tanta forza per attuarle? 

Antonio Giovanni Pesce

Arcipelago Travaglio


Marco Travaglio, giornalista ormai in prestito alla recitazione di atti giudiziari (genere del tutto italico, e dunque c’è da vantarsene), non l’ha proprio presa bene la sentenza della Cassazione con la quale si è deciso di rifare il processo a Dell’Utri, condannato a 7 anni in Appello per associazione esterna in associazione mafiosa.
‹‹Le sentenze vanno rispettate›› diceva Travaglio fino a qualche giorno fa, ma quelle erano altre sentenze: erano sentenze che gli facevano scrivere libri – a che serve un libro in cui si dice che i nemico non è colpevole? – e scrivere libri gli dà il pane. Dopo l’oscuramento forzoso di Berlusconi, il noto polemista rischia di perdere un altro programma di intrattenimento per i fedeli del suo verbo arcigno, e sì che c’è già crisi!
Più interessante dei presunti – perché presunti sono, e bisogna ammetterlo – fini del discorso travagliato di Travaglio, c’è il discorso in se stesso. In soldoni? La mafia ha vinto. La mafia ha vinto perché non s’è punito Dell’Utri. E addita il krumiro di turno, il giudice cattivo che non ha fatto quello che la pulizia morale del novello Robespierre auspicava. Attendiamo manifesti e raccolte di firme contro il reproba.
Capisco Travaglio: nel 92, davanti ai cadaveri ancora fumanti di Falcone e Borsellino, io proponevo la pena di morte per i mafiosi. Lui, in fin dei conti, chiede sette anni, anche se di un presunto ‘collaboratore’. Mi diedero del fascista per la prima volta. Avevo appena 14 anni. Non credo che ci si possa offendere, se do dello stalinista a lui che di anni ne ha 40 suonati. Perché questo è il punto: possiamo fare giustizia al di là della giustizia umana e dei suoi tribunali? E un accusato è colpevole fino a sentenza definitiva o no? Nell’Urss di Stalin i processi finivano tutti in un modo: l’accusato si autoaccusava. E nessuno commentava l’esito del processo, e non solo perché non c’era nulla da commentare davanti ad un reo confesso. Perché il prossimo ad autoaccusarsi sarebbe stato l’incauto commentatore.
In uno stato di diritto le cose vanno altrimenti. Vanno che i processi si fanno, e che il colpevole spunta fuori solo alla fine dell’iter giudiziario. Magari, poi, uno può evitare di votare l’accusato, o magari di imparentarcisi sposandone la figlia o dandole in moglie la propria. Però il colpevole per la legge è colui che viene riconosciuto tale dalla legge. Piaccia o no.
Piace a pochi. Posizione poco netta, e dunque poco vendibile negli spalti dell’opinione pubblica. Dove le opposte tifoserie sono unite dall’odio per l’arbitro, tranne quando assegna rigori contro l’avversario. 

Antonio Giovanni Pesce

9 marzo 2012

La storia in chiave femminile, non femminista


Il secolarismo ha il suo calendario. Tra i primi atti compiuti dai giacobini, ci fu proprio quello di stabilire un calendario. L’altro giorno, in libreria, tra le pila di libri faceva bella mostra di sé l’ultima fatica d’un noto saltimbanco (che, appunto perché saltimbanco, si è ormai dato alla politica), dedicata appunto alla santità laicista.
L’8 marzo il secolarismo mercanteggia la donna. Si sa come vanno queste cose: qualcuno ebbe la giusta idea di ricordare le sofferenze femminili. Questo non è secolarismo, perché non c’è merce. Questo è profonda umanità, del tutto condivisibile. Però, allora, eravamo cristiani. Poi siamo diventuti post-cristiani. Il mondo, poi, si è convertito al secolarismo. E il secolarismo trasforma tragedie personali in casi pubblici e problemi sociali in mercanzia politica. La festa della donna è, solitamente, una ghiotta occasione per fare affari.
Il secolarismo ci prova a scalzare gli altri calendari – cristiano, ebreo, mussulmano -, magari con la scusa del rispetto o chissà quale altra diavoleria retorica. Tuttavia, il suo clero è troppo vasto: più del protestantesimo, il secolarismo è riuscito ha trasmettere l’idea di ‘sacerdozio universale’. Tutti sul pulpito, tutti a spezzare il pane della parola ai bisognosi (e ce ne siamo tanti!) di uno straccio di ideale in cui ancora credere.
Quest’anno il tema centrale di buona parte delle omelie è stata la toponomastica stradale italiana. In soldoni, meno del 5% delle strade italiane sono intestate a donne. Così, in un paio di giorno, la discussione pubblica è passata dal problema della fame nel mondo – tema sempre verde e di certo effetto – alla ‘problematica’ (come suole dire il sociologismo catodico) della rilevanza storica della donna.
Tra le molte sacerdotesse che hanno officiato la sacra liturgia, ce ne sono state di parecchio indignate per questo. Provenienti da diverse estrazioni culturali (dal marxismo al liberalismo, al cattolicesimo), e da diverse militanze politiche, le figlie di Apollo hanno voluto rischiare con la loro luce il mondo un po’ dionisiaco del maschio, che finora ha danzato dimenticato dell’altra faccia dell’umanità.
Si tratta, innanzi tutto, di una battaglia alquanto démodé; parlare di sessi, di maschi e di femmine, e di sessi determinati dalla declinazione anagrafica, è ormai ritenuto preistorica ideologica da parte del nuovo pensiero di ‘gender’; inoltre – questo il vero punto – la storia è stata fatta veramente dai soli uomini.
Abbiano il coraggio di ammetterlo le sacerdotesse e le loro adepte, che ieri notte sono andate a cercare trasgressione in qualche bettola come un arrapato camionista. Guerre? Eccidi? Scoperte avveniristiche? Tutte illusioni tipicamente maschili, dalla donna scopiazzate soltanto a partire dagli anni ’60 del secolo scorso.
Ci vuole tempo, allora, perché la toponomastica si riempia di quella sterile soddisfazione, finora provata non tanto dai maschi ma dai morti. Fino a ieri, la donna muoveva la Storia, essendo tra i due sessi l’unico più radicato alla terra. Fino a ieri aveva in mano la vita, e faceva storia da viva. Ora vuole il necrologio sbiadito d’un numero civico. Lo avrà. La donna ottiene sempre quel che vuole. Perfino di raccontare la storia nel modo che meno le conviene. 


Antonio Giovanni Pesce

8 marzo 2012

Attenti ai lupi

Nel mezzo del cammin della giornata scorsa, mi ritrovai nella selva oscura del sonno postprandiale, succulento come ogni dì che mi vede metter peso e bagnato dal buon vino di Avola. Io stavo sprofondato in divano, con sottofondo lo strepitio di donnine avvizzite, che scoprono sull’orlo della morte il gaudio di un giorno dentro il tubo catodico, quando ecco che vidi laggiù – o parvemi di vedere – una miriade di corpi aspettare in riva ad un fiume di lava bollente. Venne il traghettatore, ed io credetti di vedere Acheronte. Era invece Marco Travaglio, che gridava alle anime: “Guai a voi, anime pudiche”. Lì, sulla nave, ci fu pianto e stridor di denti, e quando le anime giunsero nell’altra sponda, un cartello faceva bella mostra di sé e recitava: “Lasciate ogni intimità sessuale voi ch’entrate”. Le anime, allora, dovevano dichiarare a forza come piacesse loro fare all’amore, e dovevano poi ballare al ritmo di samba brasiliana il motivetto che un arcigno mostro, dalle sembianze simili a quelle di Lucia Annunziata, ticchettava su dei fogli di carta prepagata.
Io me ne stavo terrorizzato e lontano, e al mio duca dissi: “Caro amico ti parlo, così mi distraggo un po’”. Ma egli, un po’ triste, rivoltosi a me rispose: “Attento al Lupo”. Ed io capii quanto meschini siano quei lupi, che per brama di far sentire al mondo il loro inutile ululato (più simile al latrato di una cagna da guardia al soldo del padrone della masseria), turbano le placide acque del golfo dei ricordi. 

Antonio Giovanni Pesce

7 marzo 2012

Getsemani

Ogni secolo ha i bigotti che merita. Quelli del nostro hanno la fisima del ‘cuore’: non vogliono donare a Dio una postina di rosario, un Pater biascicato nel torpore della notte, un’elemosina stentata. Vogliono donargli il cuore. Questa piccola borghesia di sacrestia, che prega schitarrando per più di due ore filate, crede facile giacere accanto a Cristo, nella penombra tetra della luna del Getsemani, quando è in gioco il Tutto stesso.
Cosa c’è di più vanaglorioso che voler star desti, quando pure i discepoli fidati dormivano? Pensano di farsi cirenei, quando perfino lo sventurato, raccontato dal Vangelo, avrebbe voluto non patire quell’umiliazione né affrontare quella sofferenza.
Ormai è semplice: alla Storia è stata rivelato il suo Fine. Il Tutto non è più in ballo, perché ha il suo Fondamento. La Morte è vinta. Ora sì, ora tutto è molto semplice. Ma il Getsemani è stato il più grande campo di battaglia. E combattere una guerra è cosa assai più grave che apprenderne l’esito qualche millennio dopo.  

Antonio Giovanni Pesce