"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

28 ottobre 2011

Stancanelli ambiguo: ieri fumata nera, oggi sapremo

Stancanelli ambiguo: ieri fumata nera, oggi sapremo 
di Antonio G. Pesce - Giovanni Grillo si illudeva ieri, quando nell’editoriale, a proposito della riunione tra maggioranza e sindaco, affermava che, alla fine, ne avremmo saputo di più. La riunione c’è stata, ieri sera dalle 18 alle 20, ma in realtà neppure i consiglieri di maggioranza c’hanno capito nulla. Se ne sono tornati più confusi che persuasi, essendosi trovati davanti uno Stancanelli che le decisioni, più che averle prese, pareva volesse averle consigliate. Li ha ascoltati paternamente, come colui che, stretto tra la Scilla del cuore e la Cariddi della ragione (in questo caso, della ragion politica), non volesse far torto a nessuno, spezzando con equità il pane alla mensa della politica.
Di una cosa, però, si può essere sicuri: i nodi vengono al pettine. Prima o poi. E vengono nel momento più sbagliato, quando ogni strada pare portare in un vicolo cieco. Si dice che quella che vorrebbe percorrere il Sindaco sia, ancora, quella che conduce a Palazzo degli Elefanti (proprio ora, che il nuovo piano viario del centro gli fa godere piazza Duomo!). E si dice che ci si siano messi di mezzo il gatto e la volpe del Pdl, alias Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, per condurre il nostro povero Pinocchio nella strada della perdizione. La maggioranza, a livello nazionale, rischia di sciogliersi come neppure la poca neve di qualche settimana fa sul Mongibello, dopo le ultime folate di scirocco. Ed ecco perché ha bisogno dell’intrepido sindaco catanese, il quale, suo malgrado, potrebbe anche sacrificarsi.
Non dovrebbe essergli però troppo gravoso. Uno ci pensa e fa mente locale. A Catania circolano i nomi di possibili candidati a sindaco per il centrodestra: i ‘rottamatori’ non ci sono solo nel Pd. È, inoltre, una piazza difficile la nostra città, nella quale il povero avvocato di Regalbuto è stato paracadutato nottetempo. Infine, ti accomodi sullo scanno di Palazzo Madama, che per diversi aspetti (è necessario elencarli tutti e specificarne la natura?) è assai più comodo di quello di sindaco.
Certo, il Pdl andrebbe alle urne in una grande città in cui, bene o male, la maggioranza regge e fa qualcosa, rischiando – perché ogni volta che si va ad elezioni si rischia qualcosa – di perdere tutto, per difendere con gli ultimi giapponesi la guarnigione governativa. Va be’, vuol dire che ci credono davvero che il governo arriverà a fine mandato.
Però, è bene che Stancanelli non commetta un grosso errore. Quel grande errore commesso anni addietro da Enzo Bianco, poi da Scapagnini. E anche da Walter Zenga: preferire Catania (anche quella calcistica) ad altro. I catanesi, gente tosta, non perdono. Non è un caso che Musumeci faccia di tutto per essere presente in Consiglio, nonostante l’incarico di sottosegretario.
Non commetta questo errore Stancanelli. Anche perché le prossime politiche potrebbero giocarsi sul filo delle preferenze.

Pubblicato il 28 ottobre 2011 su Catania Politica

Consiglio, norme e polemiche

Consiglio, norme e polemiche
di Antonio G. Pesce - Intervento pesante di Manlio Messina al Consiglio comunale di ieri sera. E non è stato l’unico. Tu ti aspetti una seduta tranquilla (alquanto), e invece capitano due cose inattese.
La prima. L’assessore Bonaccorsi e il ragionerie generale chiedono la sospensione dell’atto deliberativo inerente la gara per l’affidamento della gestione in concessione del servizio di riscossione volontaria dell’entrata TARSU, della riscossione coattiva delle Entrate Tributarie ed extra Tributarie: TARSU, ICI, TOSAP/COSAP, ecc. Il motivo? L’interpretazione di una normativa non molto chiara. Solo che, nei mesi scorsi, proprio l’amministrazione aveva sollecitato una pronta approvazione.
Rosario D’Agata, capogruppo Pd, non si fa sfuggire la cosa, sottolineando che la normativa è del luglio scorso: ci vogliono 4 mesi per trovare questo (si direbbe in termini informativi) ‘bug’ interpretativo? Tra l’altro, l’amministrazione non ritira, ma vorrebbe sospendere.
Nella sua replica, dopo che anche Manfredi Zammataro, a nome de La Destra-As, si è detto sconcertato, Bonaccorsi la dice tutta: i primi in Italia a sollevare il dubbio siamo stati noi di Catania. Dopo Pascal, anche Cartesio dunque! Ma ne nasce un battibecco con D’Agata: l’assessore, nel suo intervento, rifila una staffilata al capogruppo Pd, dicendo che un ‘avvocato’ dovrebbe sapere che i dubbi interpretativi si sollevano col tempo. D’Agata è, appunto, avvocato e, punto sul vivo, prende la parola è afferma: ‹‹Vorrei ricordare al signor assessore che qui io sono in veste di consigliere››. Le coronarie del ciceroniano oppositore reggono. Un po’ meno le gambe del Tremonti nostrano, che si lascia andare sullo scanno con un’aria sconsolata.
Ma è sulle comunicazioni che il bello ha da venire. Zammataro si congratula con le forze dell’ordine e con la magistratura per l’arresto del boss Arena, e rilancia l’idea, avanzata ormai da tempo, di un osservatorio della legalità, per mettere in ‹‹rete tutte le associazioni antiracket e antimafia››. D’Agata, appena il tempo di riprendere fiato, parte subito all’attacco: nella seduta del 14 settembre aveva già parlato dei problemi preventivabili del villaggio S.M. Goretti con le prime piogge. E che si è fatto? Nulla. Bonaccorsi, nella replica a nome dell’amministrazione, gliene darà atto di averlo detto (ché poi Bonaccorsi è un bravo ragazzo!), ma, secondo gli uffici e l’assessorato competente, si è trattato di un nubifragio di enormi proporzioni, non facilmente gestibile comunque.
Arriva il turno di Manlio Messina (Pdl). Due tipi di comunicazione: amministrativo, e quello che egli definisce ‘istituzionale’. Partiamo col primo tipo. Intanto, la riduzione dei parcheggi in piazza Verga, per far largo a posti ‹‹riservati››. ‹‹E poi dicono che la ‘casta’ siamo noi consiglieri. Se ‘casta’ non ci deve essere, non ci deve essere per nessuno››. Poi, una velina che già circolava (e noi siamo stati gli unici a scrivere, seppure a fiaba): durante i mondiali di scherma, il pranzo offerto dalla città ai partecipanti viene spostato all’ultimo istante. Il luogo – villa Manganelli – nel quale si doveva tenere viene chiuso, dopo ispezione da parte comunale, per mancanza delle licenze idonee da parte del ristoratore. Che – a detta del consigliere Messina – fino a qualche giorno prima era socio in affari con il presunto mandante ‘assessoriale’ dell’ispezione.
Ci si può immaginare che accade! Polemiche a non finire, che avranno di certo un seguito. L’altro argomento, dopo questo, che unisce l’intera assise, è la proposta, avanzata dallo stesso Messina, di ‘tassare’ i consiglieri comunali per contribuire alle spese sostenute da Laura Salafica, che da più di un anno è costretta a sostenere gravose cure riabilitative fuori regione. L’iniziativa avrà il supporto di tutti, dal Pd a La Destra. Piace sottolineare quello che Messina ha aggiunto: ‹‹Laura ha dichiarato di essere stata abbandonata. Io stesso – me ne assumo la responsabilità – l’ho dimenticata. È venuto il momento di riparare, affinché questa figlia della nostra città non si senta più sola››.
Parole di grande onestà, alle quali si associano tutti i partiti. D’Agata, a nome del Pd, dichiara di essere disponibile a collaborare nel miglior modo possibile. Invitando – D’Agata non dimentica: benissimo, lo avevamo fatto notare proprio noi di Catania Politica – l’amministrazione a costituirsi (cosa che ancora non è avvenuta) parte civile nel relativo processo.
Gemma Lo Presti (La Destra) chiede che venga devoluto il prossimo gettone di presenza. Le donne! Quante ne sanno le donne! C’è un motivo perché proprio la prossima seduta – e così vi diamo un’anticipazione, cari lettori: venerdì prossimo, 28 c.m, il Consiglio si radunerà per ascoltare le dichiarazioni del sindaco Raffaele Stancanelli. Cosa rara di per sé, figuriamoci dopo la sentenza che gli imporrebbe di scegliere tra la sindacatura e lo scanno di Palazzo Madama. ‹‹Si presume ci sia più gente›› afferma la ‘brava massaia’ Lo Presti.

Pubblicato il 27 ottobre 2011 su Catania Politica 

Consiglio "sociale" a Catania

Consiglio “sociale”
di Antonio G. Pesce – Ieri sera in Consiglio comunale l’assessore alla famiglia e alle politiche sociale, il prof. Carlo Pennisi, ha descritto il progetto di riordino del servizi sociali catanesi. Davanti ad un consesso non molto numeroso – hai voglia ad aspettarlo! – ma comunque assai attento, Pennisi ha ricordato, innanzi tutto, lo stato dell’assessorato al momento dell’incarico, quando ‹‹la direzione mostrava parecchie difficoltà sotto molteplici punti di vista››: dall’organizzazione del lavoro ai servizi offerti, dal coordinamento dei vari centri territoriali alle diverse responsabilità. Duecentoventi dipendenti (metà dei quali dislocati sul territorio) e fondi complessivi per quasi cinquanta milioni di euro: i numeri, insomma, di una enorme macchina burocratica, non sempre efficiente, e assai difficile da gestire.
‹‹Ho accettato l’incarico offertomi dal sindaco per senso civico›› ha dichiarato Pennisi, ed ha poi precisato che il modello di riordino dei servizi dovrà seguire le peculiarità del tessuto sociale catanese e le specifiche esigenze di bilancio dell’ente: dunque non un modello astratto, ma tagliato su misura della realtà cittadina. Questo al fine di raggiungere quattro obiettivi. Innanzi tutto, rendere i servizi più vicini alla famiglia, ottimizzando le risorse in un contesto nel quale vanno decrescendo, mentre aumentano i bisogni. È a questo punto che Pennisi traccia la linea che l’amministrazione vorrebbe seguire: un servizio alla persona, senza che si trasformi in ‹‹dote›› per chi lo riceve e per l’ente che lo eroga. Valorizzare il ruolo dei privati e semplificare e unificare i procedimenti, infine, gli altri obiettivi da perseguire.
Un punto, però, non può passare inosservato: Pennisi afferma che l’amministrazione può fare tanto sì, per valorizzare quello che fa (e deve fare) la Regione.
‹‹Bisogna potenziare il governo dei servizi per uscire dalla frammentarietà degli inteventi – ha concluso Pennisi – per approntare ad un modello unitario di programmazione, che si rifletta su ciascuna area dei servizi e sia da orientamento per la loro territorializzazione››.
A voler leggere tra le righe della lunghissima relazione, si potrebbe avere l’impressione che, più volte, l’assessore abbia tirato in ballo la Regione, quasi a dire che, in fin dei conti, quello che l’ente comunale fa è quel che può fare con i fondi che arrivano
Ma sarà, di certo, un’impressione.


Pubblicato il 25 ottobre 2011 su Catania Politica

Due domande sul caso di Laura Salafia

Due domande… 
di Antonio G. Pesce – Ci sono due cose, emerse dall’intervista a Laura Salafia, che mi sono del tutto inspiegabili. Non si tratta del suo atteggiamento verso chi l’ha ridotta in quello stato, perché, paradossalmente, questa è la cosa più comprensibile.
Immaginiamo di essere al bar con gli amici. Chi ha frequentato l’università, sa bene quale respiro di sollievo dopo un esame finito. Stai parlando del più e del meno, quando ad un tratto non ci capisci più nulla: sei a terra, il fiato corto, in una pozza di sangue. Passano i mesi, e ci capisci sempre meno. Poi, hai un barlume di lucidità: la tua vita non sarà più la stessa. Non perché potresti non essere più autosufficiente come prima – potresti anche ritornarlo ad essere. Il problema è che l’animo di un essere umano è più fragile di quanto non si creda: noi proprio non ce la facciamo ad accettare l’assurdo. E qui la cosa è ancor più assurda: un tizio che scorazza in moto sparando, e tra tanti che potevano restare a terra, proprio tu…
Alla fine, non tutti trovano il bandolo della matassa che, essendo nascosto ben in profondità, non è neppure tanto facile da scovare. Però Laura ce l’ha fatta, ha capito quale sia la sua condizione, e sta lottando per superarla. Tanto di cappello, signori!
Rimangono, però, due domande senza risposta. Laura dice di voler tornare a Catania, nella sua Sicilia. Dice di amare Catania, questa città che i tanti fighettari, col Suv del paparino, snobbano e denigrano per sentirsi ‘cool’ agli occhi del resto del mondo. Questa Catania ridotta ad essere una gallina, e peraltro ormai spennata, da chi l’ha considerata una diligenza da assaltare. C’è chi è fuggito, pur avendo avuto tutto: fuggito via, verso lidi più remunerativi. Chi, invece, non ha avuto nulla, e quel poco che aveva gli è stato tolto, vuole tornare per combattere qui la propria battaglia. E allora ti chiedi: perché i più fieri di questo tricolore, di questa bella isola, di questa incredibile città sono, innanzi tutto, coloro che avrebbero qualche buona ragione per esserne schifati? Perché il ‘patriota’ è il disoccupato, il disilluso, addirittura la vittima?
Un’altra domanda. Laura ha lanciato il suo grido. Se non fosse stato per le persone che la amano… fermiamoci qui! Ora, ritornando in questa terra, ha bisogno di tutto: una casa adeguata, un’assistenza adeguata. In molti si sono detti disponibile ad aiutarla: tutta gente che conta, tra l’altro. Ma la domanda è: perché devono muoversi le telecamere, perché ci si ricordi che siamo tutti ‘comunità’?
Voi, cari lettori, ve la prendereste con le istituzioni, i politici, i potenti dell’Isola, ecc. Sì, ci può stare. Ma io voglio essere più radicale: dov’è stata quella società civile – dove ‘siamo stati’ tutti noi in questo tempo? – noi che ci siamo indignati, che ci siamo dati appuntamento per manifestare, che abbiamo organizzato la nostra rabbia.
Noi – noi tutti – avevamo altro di cui ‘indignarci’.
E’ nato un comitato per sostenere “Laura Salafia”, promotore dell’iniziativa l’avvocato Carmelo Peluso. Laura tornera’ a Catania per Natale. Fino ad oggi il peso per assistere e curare Laura grava esclusivamente sulle spalle dei genitori che in 15 mesi non l’hanno mai lasciata sola. Dal giorno della sparatoria, è rimasta paralizzata, non muove nè gambe nè braccia. Laura ha bisogno di molte cure. Tutti insieme, possiamo davvero aiutare Laura, versando anche un piccolo contributo sul conto corrente: – IT 85F01030 16918 00000 1267 714 – Salafia Laura presso Monte Paschi di Siena.


Pubblicato il 24 ottobre 2011 su Catania Politica

24 ottobre 2011

Abolire le province. Ma come?

Abolire le province. Ma come? 

di Antonio G. Pesce - Le province si avviano ad essere abolite. Almeno in Sicilia, e secondo un disegno di legge voluto dalla giunta regionale. La cosa, com’era preventivabile, sta suscitando vaste polemiche, anche perché la lotta politica nazionale non poteva non lambire le nostre coste – anzi, proprio nelle nostre ha conosciute alcune sue fasi, e tre le più cruente.
Non si è contro l’abolizione delle province o a favore: oggi si pensa a colui che ne sarebbe artefice, tal Raffaele Lombardo, alle sue ragioni, alle sue motivazioni, ai suoi meriti e demeriti. Ma ci può essere anche un altro approccio: vedere se la cosa funziona, e a quali condizioni.
Innanzi tutto, però, bisogna rispondere ad alcune obiezioni. Solitamente, coloro che sono contrari ai tagli degli organi rappresentativi (sia qualitativamente, come far scomparire un’istituzione – in questo caso quella provinciale; sia quantitativamente, come diminuire gli eletti di ogni ordine e grado), temono che, con la buona ragione del risparmio, si mini la rappresentatività e, con essa, la partecipazione all’istituto democratico. Ora, chi afferma questo ha delle buone ragioni, e non vi è dubbio che è un aspetto da tenere in conto. Tuttavia, siccome la politica non scopre leggi fisiche valevoli su tutta la sfera del reale, ma deve trovare soluzioni ai tanti problemi che nascono continuamente dalla vita consociata, un discorso come quello precedente ha il limite di non vedere quale sia la condizione attuale alla quale bisogna dare risposta.
La democrazia avrà tanti meriti, ma rischia di aver il demerito di renderci più stupidi, se la si fa diventare un valore, alla stregua di quelli inalienabili della persona umana, e non la si guarda come un istituto del tutto umano. Con pregi, dunque, e con profondi difetti. E il difetto di ogni regime – quale che ne sia la natura – è che il potere finisce per essere un campo gravitazionale in cui rientra tutto ciò che si muove e respira, e che possa trasformarsi in consenso. A maggior ragione in democrazia, e soprattutto nella malata (ma sempre meglio di niente) democrazia italiana.
Ora, se il disegno di legge, proposto dalla Giunta regionale, ha un limite, è quello di non sfoltire ancor più, lasciando che le fronde della macchina pachidermica della Regione continuino a stormire. L’abolizione delle province è un buon inizio, ma, da quel che pare, non si dovrebbe andare oltre. E questo no: non possiamo permettercelo.
Inoltre, la consociazione dei comuni potrebbe avere effetti deleteri. Basti un esempio di consociazione pregressa: i famosi Ato, che non spiccano per la loro efficienza, né tanto meno per la chiarezza del proprio funzionamento.
Bisogna, dunque, fare attenzione. L’idea non è malaccia, anzi. È come la renderemo qualcosa di più di un casto e bel proposito che si deve temere. Possiamo – è vero – dare campo alle aree metropolitane, ma in Sicilia significherebbe soltanto coinvolgere le province di Catania e Palermo – a stento quella di Messina. Non si risolverebbe molto. La soluzione è, invece, quella dell’abolizione di tutte le province, evitando però che quel che buttiamo dalla porta, ci entri poi di nuovo dalla finestra.

Pubblicato il 19 ottobre 2011 su Catania Politica

19 ottobre 2011

La Storia è una lavandaia


La Storia umana è una lavandaia a servizio di Dio. Nel torrente degli eventi lava i pannicelli sporchi dei figli discoli del Signore. Tutti siamo figli discoli. Tutti sporchiamo il grembiulino della scuola o il vestitino della domenica, con macchie che si vedono – i più rozzi e i meno fortunati; con macchie che non si vedono – gli sventurati che non trovano maschere con cui coprirsi.
Nessuno entrerà al banchetto regale se non mondato. Si inizia da qui. La Storia è una lavandaia, a volte un po’ sguaiata, ma che ben sa fare il proprio mestiere. Non ci sono panni che essa non lavi: quelli dei piccoli e quelli dei grandi; quelli dei ricchi e quelli dei poveri; quelli dei più buoni e quelli dei più cattivi. Tutti siamo, a seconda delle circostanze, più buoni di alcuni e più cattivi di altri. Nessuno sfugge. E non ci sono macchie che non vengano lavate. I novelli Trasimaco, che per il loro bieco utile sacrificano le speranze altrui, macellai che scannano e non si curano di insozzarsi col sangue del più debole, temano il giorno il cui verranno spogliati davanti al torrente e lavati di tutto capo.
È solo questione di tempo: ciascuno di noi deve rendere conto del proprio vestito. Il Purgatorio inizia appena comincia la vita. La Storia ne è soltanto l’anticamera.

17 ottobre 2011

La crisi del liberalismo e l'Occidente scristianizzato

Rec. a Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica, Milano, Mondadori, 2008, pp. 196.

 

La storia non ci sta risparmiando interrogativi. Ieri, interni alle mura di quel che fu il presunto (e a volte presuntuoso) «Mondo libero», e dal 2001 ad oggi a livello planetario. Perfino il placido Mare Nostrum è tornato a ribollire, mentre l'Unione Europea si mostra sempre più indecisa (quando non addirittura sfacciatamente impreparata) nell'affrontare sfide che, nell'affermazione di uno Stato unitario, sono di capitale importanza.
Torna utile, allora, rileggere i tre corposi capitoli, preceduti da una lettera di papa Benedetto XVI, che Marcello Pera ha mandato in stampa qualche anno fa col titolo di Perché dobbiamo dirci cristiani. Lavoro che, riprendendo Croce (anche se marginalmente), si oppone all'apostasia del cristianesimo di cui ormai ci si farebbe vanto in Europa. Un'opposizione che, partendo dalla condizione «del laico e liberale che si rivolge al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza [vuole] riaffermare una fede (altra espressione appropriata non c'è) in valori e princìpi che caratterizzano la nostra civiltà» (pp. 4-5).
L'analisi prende avvio dalla questione su cosa sia il "liberalismo", il quale, peraltro, non godrebbe di buona salute (difficile dar torto a Pera): se mai è esistita una stagione in cui, e nella pratica e nella teoria, il liberalismo abbia mostrato una sola sfaccettatura, questa non è proprio la nostra. E tuttavia, nonostante quella che Pera definisce una vera e propria «crisi», i liberali di ogni epoca e specie si sono trovati a concordare sul fatto che 1) gli uomini sono liberi e uguali per natura, e che 2) uguaglianza e libertà sono antecedenti all'uomo e alle strutture sociali nate per garantirle.
Proprio su quest'ultimo punto la tesi di Pera sarebbe da discutere. Dal liberalismo di Croce all'interpretazione di Gentile, maturata all'interno di una revisione del liberalismo che si imponeva in Italia e non solo, e non escludendo il pensiero di Luigi Sturzo, l'aspetto comunitario ha una sua rilevanza. La polis è il luogo dove si danno le garanzie della persona, perché la persona, innanzi tutto, non è una monade. Ovviamente, non è neppure totalmente aperta alla sintesi con l'altro, ma senza di questi sarebbe mero individuo, e l'individuo imporrebbe di spiegare la nascita dello spazio intersoggettivo.
Ciò non significa, tuttavia, che la tesi esposta da Pera non sia ben giustificata. Significa, invece, che proprio partendo da una interpretazione più ampia del liberalismo, lo scopo finale sarebbe stato raggiunto con più facilità.
Ad ogni modo, secondo l'ex presidente del Senato italiano la storia si è mostrata alquanto restia a confermare quest'ottimismo di fondo, e la religione non solo non si è piegata ai costrutti politici, ma a volte è stata anche motivo di divisione (ovviamente, verrebbe da dire: proprio perché il liberalismo, così ricostruito, non tiene conto della dimensione comunitaria).
A far quadrare i conti, dunque, ci si sono messi -- possiamo dire -- contabili di tutto rispetto come Rawls con la sua «autosufficienza del liberalismo»; Habermas col suo «patriottismo costituzionale», e Rorty che, tanto per non indugiare troppo, ha proposto di eliminare uno degli addendi, cioè la religione, dal libro mastro della sfera pubblica.
Passando in rassegna le varie «equazioni» -- da quella negativa, secondo la quale lo stato liberale è laico, nel senso che non è giustificato secondo credenze religiose; a quella per cui lo stato liberale includerebbe la religione nella sfera privata (si chiede Pera: chi è autorizzato a tracciare il confine tra pubblico e privato? Si può chiedere di dismettere la fede come si fa con un abito? Ma ci sarebbe anche da chiedersi: come si può dicotomizzare la vita del concreto individuo, che va a messa e va poi a votare?) -- giunge all'«equazione laica» che vuole lo Stato fondato su termini, se non opposti, quanto meno diversi dalla fede: lo Stato liberale così, pur di non abbracciare la fede dei Padri del liberalismo, finisce per sposare la religione della laicità, che non è proprio quello che volevano Locke, Kant, Jefferson.
Eppure questa laicità, che dovrebbe essere il collante minimo dell'Unione e sulla base della quale si sono scritti i trattati e le bozze della costituzione europea, non infiamma i cuori degli europei: Pera traccia i vari fallimenti di questo cammino nel secondo capitolo. Quindi, l'analisi continua affermando che non solo nessuno sa chi siano gli europei, ma neppure come si faccia l'Europa. È quello che nel libro viene definito come paradosso dell'identità europea: «poiché i "princìpi" e i "valori indivisibili e universali" di cui parla la Carta trascendono, per definizione, qualunque collocazione storico-geografica, e poiché i diritti che discendono da tali princìpi e valori si riferiscono agli individui in quanto individui, cioè indipendentemente dal loro essere cittadini di questo o quello Stato, ne consegue che la Carta europea, in quanto basata su princìpi, valori e diritti universali, è una carta cosmopolita, cioè ha come referente l'intera umanità» (p. 77).
Il problema nasce, però, non dal fatto che manchino idee concrete sull'identità, ma che ne manchino su come giustificarne una piuttosto che un'altra: è stato abolito, in Europa, il comparativo di maggioranza: «migliore di... » non si può più dire, è politically uncorrect. Contro di esso hanno lanciato i loro strali il relativismo ormai dominante e il multiculturalismo, che ne è la versione pratica e sociale. Non possiamo giudicare, perché ogni cosa ha la sua cornice, e si giustifica solo all'interno di questa. Siamo passati, nota Pera, dall'universalismo kantiano al relativismo culturale (ma non si tratta forse di storicismo?) dei vari Hegel, Harmann, Jacobi, Heder, per finire -- meglio, per schiantarci contro il soggettivismo, lo scetticismo, il nichilismo e il decostruzionismo di stile nicciano. Ma se due dottrine non si possono comparare, non si può dire neppure che siano uguali. E allora in base a cosa scegliamo? In base a quello che più ci aggrada: il resto del mondo deve accodarsi. E così l'universalismo individuale di Kant, che faceva nascere la legge universale dalla persona concreta, è stato prima soppiantato dall'individualismo utilitarista di Stuart Mill, e questo, a sua volta, dal prometeico andazzo dei nostri giorni, che si esprime secondo i suoi comandamenti: «a) Non esiste alcuna legge morale universale, né religiosa né laica. b) Nel mondo liberale (occidentale), vale il principio del rispetto delle libere scelte di valore degli individui», i quali però li fanno valere anche nella sfera pubblica, perché è allo Stato -- uno Stato divenuto sempre più paternalistico -- che chiedono il riconoscimento dei loro orientamenti sessuali o della loro concezione circa la vita e la morte. A questo punto verrebbe da opporre la questione prima esposta: un liberalismo più comunitario, non sarebbe una risposta più fondata? Se il fondamento è rappresentato dalla libertà individuale, e non da quella che ci permettiamo di definire personale, come opporre poi validi argomenti a chi vede lo Stato come entità distinta da sé e chiede all'altro di accomodarsi alle sue inclinazioni?
Per Pera il multiculturalismo non è una risposta alle sfide dell'attuale società globalizzata, e tanto meno un modo per integrare meglio le altre culture nella nostra, soprattutto quella islamica. L'Europa che ha concesso più di quanto fosse lecito concedere ad usi e costumi non autoctoni, non li ha menomamente integrati, anzi. Londra è piena di ghetti, le banlieue francesi sono andate in fiamme, e nei Paesi Bassi ci sono quartieri dove si è tentato di introdurre la legge islamica (sharia): non abbiamo creato una sola comunità, ma tante piccole comunità, che prima o poi entrano in conflitto. «Concedere o non concedere diritti di gruppo dipende dalla qualità dei diritti richiesti, dalla loro conformità ai diritti fondamentali garantiti ai cittadini nella società ampia. Se i gruppi rispettano i diritti fondamentali, quei costumi sono ammessi, se no sono banditi. Nella società liberale, primari sono gli individui, non la società [...] per i liberali, vale la regola che violare i diritti fondamentali è sempre una violazione sull'uomo, mentre violare diritti di gruppo è talvolta una promozione dell'uomo» (p. 117).
Ma se la tradizione europea è stata forgiata dal cristianesimo, accettare questa tradizione significa convertirsi? «La risposta è: una conversione religiosa no, una conversione civile sì» (p. 121).
Qui sta il grande merito, ma anche la profonda contraddizione dell'analisi di Pera. Con buona pace di chi ha bollato questo argomentare come «ateismo devoto», non possiamo rimescolare le carte della nostra partita: nella formazione di ogni individuo, nel suo farsi persona, nel suo universalizzarsi sempre più, entra in gioco -- in un gioco dialettico -- l'esperienza di milioni di uomini, vissuti prima di ciascuno di noi, che si è fatta istituzione, diritto, filosofia, educazione. Sia o no Gesù di Nazareth il «Figlio del Dio vivente», la sua esperienza storica e la sua dottrina hanno influito enormemente su uno spazio geografico ben preciso definito Europa. Uno spazio in cui milioni di uomini hanno interagito, scambiandosi vicendevolmente la loro esperienza di vita.
Non sappiamo cosa saremmo stati senza cristianesimo, e forse, come già insegnava Ricoeur, non ha neppure senso chiederselo. Chi accetta la nostra storia non si converte al suo motore, ma si inserisce nel suo flusso. «Sta a lui l'onore di tradurre i contenuti di quella Carta [in questo caso, quella di Nizza del 2000, ma ciò vale per qualsiasi altra carta costituzionale] nel vocabolario della propria cultura di origine, o questa in quella». Traduzione, dunque. Eppure, quando Pera ha affrontato la «clausola condizionale» di Rawls e la «riserva istituzionale di traduzione» di Habermas, due modi di ammorbidire «l'equazione laica» permettendo di tradurre in linguaggio razionale le proposte della fede (p. 29), non è parso assai convinto di questa possibilità, e ciò malgrado il cristianesimo -- il cattolicesimo in modo particolare -- si presti a questa soluzione.
Dall'opera appare chiaro, seppur l'autore non giunga ad esplicitare questa tesi, che contro la religione dei «Padri» è in corso una feroce guerra, il cui fine non è quello di negare ai cristiani il loro diritto di essere «chiesa»¸ né a quella di Roma di avere un proprio corpo dottrinale. Questo sarebbe, in fin dei conti, un bieco anticlericalismo già sperimentato, e già superato nei settori più smaliziati della cultura cosiddetta «alta».
La vera guerra la si muove contro la pretesa della «Chiesa» di dire la verità in campo politico come economico, antropologico come metafisico. Una pretesa che, se fosse avanzata secondo i pur legittimi schemi del fideismo, non susciterebbe tanto clamore né la mole di pubblicazioni apologetiche di un ateismo peraltro a volte grossolano. È che il secolarismo dogmatico si sente minacciato proprio in quella conquista che dà la cifra della sua esperienza: non potendo annichilire il Fondamento, ha preferito svuotare di senso l'esperienza che l'uomo ne fa. Non è un caso che la «morte di Dio» è un «evento» che giunge a coscienza solo dopo l' «annuncio» del profeta Zarathustra. La ragione umana, in questo caso, è usata nella sua polarità negativa: non costruisce, bensì de-costruisce. E, nel de-costruire, cancella la fitta rete di legami intersoggettivi da essa già creati. Eppure, nessun «annuncio», quale che ne sia il contenuto, anche il più de-costruttivo, può di fatto giungere ad annientare le strutture semantiche che ne garantiscano la comprensibilità e, in ultima analisi, lo spazio della sua accoglienza. Su questa contraddizione interna ha giocato Joseph Ratzinger, da pontefice della Chiesa, in due suoi contestatissimi, quanto efficaci discorsi: quello di Ratisbona, il 12 settembre del 2006, e quello -- mai potuto pronunciare -- della Sapienza, il 16 gennaio del 2008.
Pera ha piena coscienza delle profonde contraddizioni vissute oggi dall'Occidente, ed ha anche chiare alcuni soluzioni. Ma non tutto risulta ben fondato: p. e., lo spazio comunitario reclamato dalle culture immigrate non può essere considerato, in via di principio, meno importante di quello in cui si innesta. Non esistono, infine, culture e spazi storico-geografici, ma uomini in carne ed ossa che interagiscono. Davanti a tutto questo, non possiamo rivendicare la libertà dell'individuo in un capitolo, e passare allo scontro di spazi nel secondo. E nel terzo non possiamo rivalutare quei ponti della ragione, che nel primo avevamo considerato meno importanti di una mitologica (se non ben analizzata) dimensione storico-culturale data.
Se, poi, l'assunto è che il Cristianesimo ha costruito il nostro mondo perché la sua «rivoluzione» (giuste le parole di Croce) ha condotto alla libertà individuale, mentre nessun'altra religione potrà mai farlo (e ben che meno l'Islam), ciò non appare ben giustificato. Nessuno potrebbe escludere, allora, che le derive di oggi non siano conseguenze (per quanto assurde) di quella «rivoluzione cristiana», e dunque semi piantati già al delimitarsi dell'orto, che ora appare appestato dalla gramigna. Né, una volta trasformata la dimensione individuale in sociale, si vede perché quella altrui non possa godere del medesimo riconoscimento.
Sono, questi, nodi che Pera non può sciogliere, perché mentre ha ben capito che il problema è rappresentato da un certo liberalismo, dall'altro non riesce completamente ad affrancarsi dalla propria formazione. Che non gli fa vedere, innanzi tutto, un altro liberalismo. E, inoltre, non gli fa trovare l'unico perno su cui avrebbe potuto poggiare molte delle sue pur condivisibili intuizioni: la persona.

 

Antonio Giovanni Pesce. «Recensione a Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 13 (2011) [inserito il 20 luglio 2011], disponibile su World Wide Web: , [16 B], ISSN 1128-5478.

 

Le colpe dei padri non cadano sui figli. Ovvero perché il Consiglio comunale continua a saltare

Le colpe dei padri non cadano sui figli. Ovvero perché il Consiglio comunale continua a saltare

di Antonio G. Pesce – Parlare del Consiglio comunale, saltato ieri sera per l’ennesima volta, e fare l’esempio del ‘nostro’ campione mondiale di schema, Paolo Pizzo, potrebbe sembrare inopportuno. Nel mondo del successo catodico (una volta, ora al plasma), la politica sembra – con qualche ragione, a dire il vero – la pedana degli sfigati, dove salgono quelli che, a scuola, erano ritenuti svogliati, tanto per non dir loro di peggio.
Eppure, se come nazione stiamo perdendo la partita del futuro, è proprio perché per anni, come politico attivo che come passivo, come eletto e come elettore, l’italiano è stato alquanto svogliato. Chiedete a Paolo che vuol dire salire in pedana. È uno sforzo spirituale, prima che fisico. Significa caricarsi di tutte le aspettative degli altri (e su queste, alla fine, si può anche sorvolare), ma significa anche farsi carico di una scelta di vita. Significa dare un senso a giorni, a mesi, ad anni di formazione. Significa darsi un obiettivo, e avere il coraggio di perseguirlo. È quando si sale sulla pedana che si è già vincitori: le medaglie possono non venire, perché, infine, quel che si guadagna non è una vittoria, ma la formazione continua del proprio carattere.
Paolo Pizzo ha dedicato questa medaglia – io vorrei però dire: questo esempio – al catanese, che ogni giorno combatte la sfida ‘per farcela’. Una sfida – sia permesso – più importante di quella di un mondiale, perché è la sfida della Vita. Catania non ce la può fare senza il suo consesso civico. Piaccia o no, la democrazia è questa, e i signori consiglieri, che tanto reclamano considerazione e rispetto da parte della Giunta, devono poi sapersi meritare sul campo quello che chiedono, con tanta insistenza, dallo scranno.
Ieri sera il Consiglio è saltato per l’ennesima volta nel giro di ventiquattr’ore. Perché? Appunto, ce lo chiediamo anche noi. Si discuteva dei debiti fuori bilancio. Fra le dichiarazioni più dure, quella del consiglierie Francesco Navarria (Sg), che ha affermato come il fatto sia ‹‹gravissimo›› e ha richiamato l’attenzione sulla ‹‹chiara responsabilità politica della maggioranza e dell’amministrazione››. Come del resto dichiarato nella seduta di mercoledì sera, per Navarria il problema nasce dal fatto che questi ottantasei debiti non vogliono essere discussi.
Ma perché non discuterli? Uno può immaginare che dipenda anche dal contesto. È bene ricordare che solo qualche giorno fa, proprio su questioni di bilancio eccetera, il giudice monocratico del Tribunale di Catania ha condannato l’ex sindaco Scapagnini e buona parte dei suoi più stretti collaboratori. Non è un caso – lo scrivevamo ieri – che Pennisi, nel suo intervento in aula, mettesse in rilievo come una buona parte di queste spese non siano state effettuate dall’attuale giunta. Insomma, Stancanelli & Co. non vorrebbero addossarsi colpe – secondo talune voci – che non hanno.
Ma perché non assumersi la responsabilità dell’operato della scorsa stagione politica, quando l’albero è sempre lo stesso o quasi? Stancanelli non è forse dello stesso partito dell’allora sindaco Scapagnini? Anche per questo c’è una spiegazioni, secondo le voci che gironzolano attorno a Palazzo degli Elefanti – a maggior ragione ora, che si affaccia sull’isola pedonale di piazza Duomo.
Stancanelli potrebbe ricandidarsi. O minacciare di farlo, per aprirsi la strada ad altro. Forte di qualche risultato, seppur contabile, l’avvocato di Regalbuto non ci terrebbe (e chi di noi sarebbe disposto a farlo?) a lasciar cadere così, di punto in bianco, un’esperienza difficile come quella di aver preso Catania sull’orlo del dissesto finanziario.
Senza, però, voler fare della dietrologia, bisognerebbe mettersi nei panni dell’attuale maggioranza: c’è davvero interesse a discutere ogni capitolo di spesa? Per fare cosa, del resto? Per offrire all’opposizione la possibilità di stimmatizzare il malgoverno passato. E da qui alla connessione, anche solo politica, col presente, il passo sarebbe assai breve. Insomma, non solo ripianare, ma anche discolparsi degli avallamenti.
Difficile che la maggioranza accetti di essere messa in croce a causa di colpe pregresse. E, del resto, pochi in quelli scanni hanno voglia di difendere l’indifendibile. L’opposizione, dal suo canto, non vuole perdersi la ghiotta opportunità (e chi potrebbe darle torto?) di porre l’attenzione sulla presunta ‘incapacità’ amministrativa di ‘tutto’ il centrodestra.
Insomma, la storia qui è lunga. Chissà quanto tempo dovrà ancora passare, prima che a Catania sia data la possibilità di salire in pedana.


Pubblicato il 14 ottobre 2011 su Catania Politica

Tutti fuori. I debiti del bilancio e i consiglieri comunali

Tutti fuori. I debiti del bilancio e i consiglieri comunali

di Antonio G. Pesce - Debiti fuori bilancio al Consiglio comunale. E fuori dal Palazzo la gran parte dei consiglieri – almeno all’inizio, tant’è che il presidente Marco Consoli ha sospeso la seduta. Ripresa un’ora dopo, sarà sospesa dopo un’ora – sarà un gioco di parole, ma così è andata – per mancanza di numero legale. Si ricomincia questa sera.
Intanto, però, l’assessore alla Famiglia e alle Politiche Sociali Carlo Pennisi ha illustrato gli atti deliberativi. Secondo Francesco Navarria (Sg) lo ha fatto male, essendosi limitato ad una breve introduzione, e rimandando all’ing. Corrado Persico, responsabile della direzione competente.
‹‹Si tratta di debiti fuori bilancio già saldati››, esordisce l’assessore, invitando il Consiglio ‹‹a prenderne atto››. Proprio su questa espressione si aprirà una dura querelle: prenderne atto o atto dovuto? La registrazione non lascia adito a dubbi: l’assessore aveva affermato che si trattava di debiti ‹‹già saldati a norma della lettera a) dell’art. 194 del testo unico sugli enti locali››, e chiedeva al Consiglio di ‹‹prenderne atto››.
Più interessante politicamente è quel che dice dopo. Pennisi fa due distinzioni molto velate, ma indicative di quel che si sta muovendo nella ‹‹Tana del lupo››. Innanzi tutto, degli ottanta e rotti atti proposti, Pennisi pone l’attenzione sui trentasei dell’attuale amministrazione. Inoltre, in quelli relativi al ‹‹ricovero›› (cioè assistenza in comunità) dei minori con problemi, sono debiti relativi al 2004, a causa di un mancato rimpinguamento del capitolo di bilancio. Comunque – ecco l’altra frecciatina – dal 2008 non se ne sono fatti più in questo versante. Perché? Perché l’amministrazione (Stancanelli, mica Scapagnini) ha provveduto con fondi adeguati a coprire il reale fabbisogno, del resto poi rimborsato all’80% dalla Regione.
Saro D’Agata, capogruppo Pd, e Francesco Navarria hanno tentato di far saltare il tappo, anche sulla scorta della sentenza con cui il giudice monocratico del Tribunale di Catania ha condannato a 2 anni e 9 mesi di reclusione per falso in bilancio l’ex sindaco e attuale parlamentare nazionale Umberto Scapagnini, l’ex ragioniere Vincenzo Castorina e tanti assessori del tempo. Perché i debiti di cui parla Pennisi non sono stati pagati subito? Perché si è andati a giudizio, con un conseguente aggravio economico dovuto alle spese processuali e agli interessi? Perché la partita non è stata chiusa subito?
‹‹Non c’erano i soldi, mi risponderete – urla in aula D’Agata – ma se un ente non può pagare, si sa qual è la strada. La sappiamo tutti cosa prevede la legge››. Prevede il dissesto – ecco il punto.
‹‹Il problema è politico – risponde Pennisi – A questo aspetto si deve guardare. Ci penserà la Corte dei Conti a decidere se sono state rispettate, come io credo, le procedure. Quello che si deve qui vedere è come sono stati utilizzati questi soldi. Sono stati utilizzati, in questi 37 atti, per dare ricovero a dei minori››.


Pubblicato il 12 ottobre 2011 su Catania Politica

Sondaggione catanese: un primo sguardo al termometro

Sondaggione: un primo sguardo al termometro
di Antonio G. Pesce – Vabbé, lo si era capito: Stancanelli si ricandida. O, quanto meno, farà di tutto per ricandidarsi. E non è che a dirlo sia il Pd, che lo ha accusato di aver organizzato riunioni (pre)elettorali con dipendenti comunali. Lo dicono alcune cose: lo sgombero di Palazzo di Cemento, il nuovo piano viario del centro – tutte cose tanto chic che sono piaciute alla Catania Bene. E la lotta all’abusivismo commerciale, i fondi stanziati per l’edilizia scolastica, e quel risanamento dei conti che tutti, a furia di rimproverarglielo, hanno fatto diventare il suo punto di forza.
Certo, bisogna vedere se Stancanelli riuscirà mai a capitalizzare questi (più o meno discutibili) risultati: non ha un grande fascino, e fino ad oggi è stato arroccato nel suo palazzo. Politica non è solo amministrazione, ma anche partecipazione. E lui la vita della città la vive poco.
Perché è importante questo? Perché si può registrare dal nostro sondaggio un certo andamento, almeno per ora: parecchi delusi e molti scollati, lontani da logiche partitiche. Lì dove il partito vale, però, sarà un vero problema. Mettiamo che il nostro sondaggio fotografi un andamento in modo grossolano, ci rendiamo conto di quel che i numeri dicono?
Pdl e Fli non andrebbero mai uniti ad elezioni. E, pur non essendo così sciocchi da non sapere come vadano queste cose, è difficile ipotizzare anche un Terzo Polo: l’Mpa è in una maggioranza su cui il rappresentate Fli nell’assise comunale, Puccio La Rosa, ha scagliato durissimi attacchi. Non solo, ma non è dato sapere l’anatomia dell’Udc cittadino. Quindi, fare supposizioni è, quanto meno, rischioso, se non addirittura errato. Però, c’è un fatto: quell’area ‘non-di-sinistra’ ha un certo peso.
Da notare l’ottimo risultato di Forza Nuova. Che, tra l’altro, a Catania si muove bene per le strade e i quartieri meno abbienti, dove non trovi nessun altro oltre la Caritas, i centri sociali di sinistra, e appunto i ragazzi di Fiore. Le tre culture del ‘900, che rimangono forti anche in questo secolo post-politico: cattolica, comunista e nazionalpopolare (in Italia, fascista).
Il centrosinistra avrebbe Sel e Scelta Giovane, ormai chiaramente col Pd in area Bianco. I primi due stanno andando maluccio, soprattutto il secondo se confrontato coi risultati di sei mesi fa. Si potrebbe azzardare – ma lo sappiamo: è un azzardo – che ai ragazzi di Sel non piacciono le cravatte dei ragazzi di Sg, e a questi la kefiah di quelli.
Il Pd: ecco una novità. Solitamente, il Pd in rete non se lo fila nessuno, ad esclusione di qualche elettore/dirigente, che in segreteria tiene la linea, e fuori si sfoga con sfottò degni del miglior Moretti. Questa volta il Pd macina consensi, segno che il partito di Bersani comincia ad uscire dalla sindrome del perdente (e che qualcuno lo vede come un’alternativa).
Un ultimo appunto: Il Pid e La Destra, che vanno molto male, e nonostante abbiano in Consiglio rappresentanti di tutto rispetto. Non solo Nello Musumeci (troppo ovvio), ma anche Gemma Lo Presti e Valeria Sudano, capogruppo Pid, sanno il proprio fatto. Come il giovane Manfredi Zammataro. Eppure, ottimi giocatori non fanno una grande squadra.

Pubblicato il 10 ottobre 2011 su Catania Politica

Oltre Lombardo. Il Pd siciliano ha uno straccio di idea?

Oltre Lombardo. Il Pd siciliano ha uno straccio di idea? 

di Antonio G. Pesce - Nell’Italia di questa meschina guerra civile, combattuta a colpi di proclami, mentre offriamo alla speculazione gli ultimi brani della ricchezza prodotta dai nostri nonni, forse il ragionamento che segue potrà sembrare ambiguo. E forse perfino schierato: si sa, non basta riconoscere al politico un ruolo. Bisogna riconoscergli il ruolo che egli vuole riconosciuto. Però, il discorso va fatto. Anche se toccherà la sempre scontrosa sinistra – perfino quella catanese, che non accetta critiche e dispensa patentini di neutralità a chi più le aggrada.
Seguite il ragionamento. Finché ci sarà libertà di esprimere le proprie convinzioni, ci sarà sempre qualcuno che avrà idee diverse dalle nostre. Si può sdegnare chi non mette la croce sul simbolo da noi prescelto, ma rimane un fatto che ci saranno opinioni discordanti su chi e come amministrare un paesino, una città, una regione, un’intera nazione. Davanti a questo fatto, ci si può denigrare a vicenda, sperando che una punizione divina si abbatta su chi la pensa diversamente. O ci si può accettare nel confronto politico, facendo leva su regole condivise. Solitamente, questo confronto con l’ ‘altro’ porta ad un miglioramento delle posizioni iniziali, perché ci si sprona a vicenda e a vicenda ci si controlla.
Dunque, quali che siano le posizioni di ciascuno, si ha di che sperare se ci s’incontra in una posizione distinta dalla propria ma seria. Ora chiediamoci: la Sicilia ha bisogna di una sinistra? Ovviamente sì. Non solo per l’economia di ogni sistema liberale, ma soprattutto perché c’è bisogno, in questo momento, che diverse soluzioni vengano messe sul tavolo, per uscire dall’impasse in cui ci troviamo. Non abbiamo alcun futuro scritto, e ben che meno nei taccuini di questi allibratori telematici, che declassano terre e popoli che non hanno mai visto. Possiamo essere quel che decidiamo di essere.
Forse domandarlo farà imbestialire il Pd, ma qualcuno ci sta capendo qualcosa della guerra fratricida all’interno del partito? E poi per cosa? Per una alleanza. Gentilmente, qualcuno potrebbe avvisarli che non vinceranno le prossime amministrative (e neppure le politiche), se non proponendo qualcosa di più solido di un mero accordo tra forze politiche (considerata poi la scarsa simpatia che queste suscitano….)?
La Sicilia non ha bisogno di alleanze. La Sicilia ha bisogno che qualcuno le prospetti un futuro. Che per ora nessuno ha. Il Pd ce l’ha questo futuro? Piuttosto che dirci perché sì all’accordo con Lombardo o perché no, dovrebbe dirci cosa pensi su: 1) ristrutturazione/ricostruzione dell’apparato (pachidermico) amministrativo della Regione; 2) rilancio economico; 3) infrastrutture; 4) servizi alla persona.
Andiamo con ordine. Centinai di migliaia fuggono al Nord, la nostra bella isola rischia di spopolarsi, mentre altri vengono assunti dall’unico ufficio di collocamento funzionante: questo posto ‘politico’ in strutture burocratiche sempre più obese è ciò che più spinge a lasciare la Sicilia – l’ingiustizia eretta a sistema lavorativo, che non la fame di lavoro vera e propria. Ma questo è un nervo scoperto: il Pd come pensa di affrontare la questione? E che pensa di una terra, dove anche quel poco che c’è, sbaracca dall’oggi al domani, lasciando intere famiglie sull’orlo del baratro? E le infrastrutture? Se ne incominciamo a parlare, nasceranno certamente contenziosi, perfino di carattere ideologico. Qualcuno, per esempio, dovrebbe dire come collegare la Sicilia al resto della nazione in un modo più veloce dei carretti marittimi oggi funzionanti. Infine, sanità e scuola: siamo con le pezze nel deretano. D’accordo, colpa del governo. Ma intanto come si pensa di fronteggiare la marea montante? E quando arrivasse un governo più sensibile, dal momento che non è credibile che abbia la bacchetta magica e la stamperia a flusso continuo di danaro, quali le priorità? Quale metodo di razionalizzazione?
Per un partito riformista queste non sono quisquilie. Lo sono – dovrebbero esserlo – le alleanze.

Pubblicato su Catania Politica il 5 ottobre 2011