"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

27 gennaio 2011

Musumeci, D’Agata e i giovani d‘oggi (analisi di un Sondaggione)



di Antonio G. Pesce- I nostri sondaggi funzionano. Se escludiamo qualche articolo esplosivo, sono quasi sempre le richieste della vostra opinione a mettere in difficoltà i nostri non molto avveniristici mezzi tecnici. Questa volta il sondaggio che “scotta” sta reggendo. E, se non ci sono delle volpi più astute dei nostri cani pastore, la pecorella della veridicità non dovrebbe rischiare.

Qualcuno si porta in rete il pubblico compiacente? Lo si fa del resto anche in tv, lo si è sempre fatto ai comizi. Perfino gli artisti che si esibiscono lo fanno. Si può scusare qualche voto dato in amicizia. Quello che importa è che vi stiate esprimendo. Catania non ha molti spazi per farlo. Non se ne vogliono creare. Ben venga, allora, che ci si confronti sul web.

E che si dice dalle parti del web? Si dice che nei primi posti abbondano giovani. Non pochi. Qualcuno è addirittura un ragazzino: pensiamo a Zammataro, il più giovane. Ma anche a Bellavia e Corradi, di poco più grandi. Potremmo continuare con Messina (Manlio), Balsamo e Navarria. Certo, giovane non è mai sinonimo di qualità, e l’esperienza pesa. E vorremmo vederli ancor più attivi di quanto non lo siano già. Li vorremmo vedere infiammare di più una città ormai fredda, stretta nella morsa di un pessimismo che, addirittura, non è neppure frutto di disperazione ma di rassegnazione. Hanno ancora tempo per farsi le ossa. Intanto, se non sempre i giovani sono stati capaci di spazzare il vecchiume, e di dare una ventata decisa di novità alla politica cittadina, trasformando segreterie e circoli in veri pensatoi nei quali riflettere ed agire, tuttavia si sono mostrati abbastanza maturi da prendersi qualche libertà. Quella stessa libertà che, a dosi meno massicce, altri non hanno la dignità di pretendere dagli alti scanni.

Ma i giovani non sono gli unici. A guardare la top ten ci sono nomi di tutto rispetto della storia politica di questa città. C’è Nello Musumeci e c’è Rosario D’Agata: c’è chi, in soldoni, la politica la fa da decenni, ed è un onore per un palcoscenico ormai calcato da poche comparse, ma in un teatro dal biglietto a prezzo intero. Se poi si aggiunge Rosario Gelsonimo, che non è nuovo al sostrato sociale catanese, abbiamo un quadro quanto mai chiarissimo: tre esponenti di tre partiti. Di tre aree di riferimento della politica nazionale. Di tre strutture che, ancora e in un qualche modo, richiamano il partito novecentesco che alcuni vorrebbero mandare in soffitta.

Non solo. Leggete la biografia – e i signori consiglieri sono invitati ad ampliarla e aggiornarla – dei giovanissimi sopra menzionati, in quel pur non fantastico sito web che il comune di Catania mette a disposizione della cittadinanza: non sono calati dalle stelle della segreteria alle stalle dell’urna per opera di forze “maggiori”. Sono giovani che si sono provati, ciascuno a suo modo, nel mondo dell’università e dell’associazionismo. Ragazzi che la politica l’hanno saggiata anche nel suo aspetto meno idilliaco, quale può essere il corteo, la riunione spontanea, la tavola rotonda.

Insomma, i nostri lettori hanno votato, e da questi voti esce una “Catania politica”. La stessa città che per lunghi mesi ha avuto una giunta tecnica.


Pubblicato il 19 gennaio 2011 su www.cataniapolitica.it

24 gennaio 2011

Esplodono sei autori a Catania per mancanza di personaggi

di Antonio G. Pesce- Ci sono progetti culturali che significano più di quello che avrebbero voluto. Non perché si è arrivati alle vette di Ungaretti, Pound, Eliot, ma perché, per quanto buono è il prodotto, l’idea che fa nascere è migliore.

È di Raudi. Esplosioni dalla periferia che parliamo. Un libro corsaro, un po’ fantasma, che si trova nelle borse dei suoi autori, nelle fotocopisterie dove non dovrebbero entrare nemmeno i testi ormai fuori commercio. È un libro sui generis, soprattutto perché scritto a più mani – se ne contano dodici, essendo normodotati i sei autori – da un gruppetto un po’ randagio di amici, tutti (o quasi) gravitanti attorno alla facoltà di lettere e filosofia di Catania. Ed è bene che dall’ex monastero dei Benedettini venga, di tanto in tanto, qualcosa di culturalmente valido. C’è ancora Step1, ma serve una risposta anche dal “corpo studentesco” non organizzato. Prima fu il Millantastorie, il cui nucleo fondativo ha dato vita alla case editrice Maori, bella espressione della voglia di cultura ed editoria che tira in città.

Ora, facendo circolare le loro nugette tra gli ampi corridoi del monastero, Francesco Buscemi, Davide Pappalardo, Alessandro Puglisi, Fabio Stancanelli, Salvatore Vecchio e Emiliano Zappalà vogliono far rivivere i fasti di un tempo. E quello che hanno scritto se lo sono pure autoprodotto. E si sono pure fatti da se medesimi le biografie finali, il pezzo migliore (leggetele e capirete). Però, l’ottima copertina e l’editing che non lascia rimpiangere la professionalità di una casa editrice, non devono ingannare: Raudi, più che l’esplosione, ne è il frutto. Perché quei versi e quelle prose raccontano di una generazione che non trova spazi da vivere, che non siano le aperture vuote del nonsenso attuale. Raccontano di una gioventù che non sa come ritrovarsi, persa nel flusso della vita che non sa più comprendere. Il manierismo di alcune parti è giustificato dallo spessore di altre, tanto che alcune cose avrebbero meritato ben altro pubblico.

Se vi capitasse di poter comprare Raudi e di “accenderne” una, potreste trovarvi con Stancanelli e Sartre nauseati non già ai giardinetti, chiusi a discettare del senso della vita con i vostri pensieri, bensì in un neutro scatolone di suoni e video (un aeroporto forse?), ad essere tanto sicuri di cosa significhi vivere, da sapere che non può essere quel clip quello che volete. O magari sentirete Catania che vive di notte, una birra e tante chiacchiere con Emiliano Zappalà in via Mancini.

Ma capirete con questi ‹‹sei autori in cerca di personaggi›› che quello che avete da cercare siete voi, questo ‹‹disperato bisogno di concretezza›› che ci viene tolto pian piano – o che forse perdiamo? – nel quotidiano che ci assilla, sempre in bilico tra fuga e ritorno, e il più delle volte si rimane, invece, in bilico tra passato e futuro. E allora piangerete quando la brocca dei ricordi si rompe e brani di vita ‹‹si spargono come monete››. Vorrete qualcosa di più: una vita essenziale come sa esserlo il corpo descritto da Alessandro Puglisi, e che Davide Pappalardo, in un suo ironico pezzo (Pornogiustizia) descrive nel ridicolo di una solitudine (anche fisica) che non si vuole accettare.

L’essenzialità la si dice, invece, anche attraverso un abbraccio. E non è questa un’illusione. L’illusione è una gioventù che asservisce l’essere all’estetica, come scrive brillantemente Salvatore Vecchio. E l’uomo alla tessera – prima quella del partito, ed oggi quella del Billionaire. Per questa vita che si schianta al mattino col suo Cayenne scrive Iodio Francesco Buscemi, ma non si pensi ad un predicozzo: iodio non è solo il disprezzo per i nuovi dogmi del divertimento (io-odio), ma anche il suo contrario, anche la preghiera che sterilizza la rabbia ‹‹di quelli che non chiedono 10 euro in più alla madre perché vedono tutti i giorni il sudore dei padri››.

Questo è Raudi: un prodotto reale di una realtà in bilico tra quel brano che si vive e quello che si vorrebbe vivere. E qui, in questo giuoco tra passato e futuro, che si trova la cifra morale dell’opera. Certo, chi non sa andare oltre le apparenze (e forse neppure gli autori, quando smettono di esseri ispirati, saprebbero farlo), si limita ad accettare o rifiutare un apparente individualismo libertario. Ma sotto un giovane che soffre c’è un germoglio di verità che non sa decidersi a spuntare. Ed è questa verità che denuncia – forse ancora con poca coscienza – le contraddizioni e le ipocrisie di una modernità liquefatta, il miglior risultato di Raudi.


Pubblicato il 15 gennaio 2011 su www.cataniapolitica.it

22 gennaio 2011

CATANIA NON AUTENTICA


di Antonio G. Pesce- La mostra catanese su Modigliani sta suscitando un acceso dibattito. Sandro Barbagallo, che nelle nostre accademie “laiche” sarebbe ritenuto ancora giovane – ha infatti trentotto anni -, e degno a stento di firmare qualche verbalone ad un paio di sgrammaticati giovincelli dandy, ha potuto pubblicare sul quotidiano della Santa Sede due articoli molto critici sulla mostra stessa e sulla gestione del lascito artistico dell’artista livornese.

Non conosciamo personalmente Barbagallo: quel che sappiamo, lo abbiamo appreso dalla rete, dove si può leggere un suo breve profilo. Il diminutivo del nome, tuttavia, e il cognome non lasciano spazio a dubbi circa la terra che gli ha dato i natali. Crediamo, allora, di intuire il patema con cui ha scritto: “un evento di una certa portata a Catania, e il vero oggetto del contendente un disegno sulla Patrona”.

Non tema troppo Barbagallo. I suoi concittadini vivono beatamente l’occasione, ignari di ogni polemica. E noi, che qui in loco abbiamo tentato di informarli meglio, siamo diventati d’impaccio (lo eravamo già, ma per altri motivi). Noi di CataniaPolitica, per esempio, non siamo neppure stati invitati alla conferenza del 13 dicembre. Non che ci tenessimo particolarmente – sia chiaro. Era periodo di compere e il giorno di santa Lucia: due buoni motivi per non andare a trovare Stancanelli nella “sua” grotta di Palazzo degli Elefanti. Ma è comunque indicativo del comportamento puerile di chi, se non gli stendono tappeti rossi, ti guarda in cagnesco.

Noi, però, alla mostra ci siamo stati. Senza accreditamento, pagando i biglietti e aspettando che iniziasse la visita guidata. Quel giorno c’era pure il solito tutto-so, che dopo aver comprato la cartolina ricordo (indovinate cosa ritraeva!), la faceva vedere ad ogni visitatore che si aggiungeva al gruppo. La guida si è mostrata brava. Ragazze talentuose ce ne sono ancora in giro, e non sono tutte chiuse in un bordello televisivo per un centinaio di giorni. Ma di quello che ha detto, mettendo da parte una difesa d’ufficio di Agatae e una sviolinata alla competenza di Parisot, una cosa colpiva particolarmente: si stima l’artista facesse centinaia di disegni al mese. Ne rimangono 1400, il frutto di neppure metà anno. Fortuna ha voluto che, non si sa bene come, si sia salvato quello in questione. Però, la profonda differenza tra quel che rimane e quel che avrebbe potuto esserci, rischia di generare ancora troppe polemiche. Non possiamo escludere, infatti, che in futuro saltino fuori altri disegni o addirittura opere di una certa consistenza, e che la polemica continua su un artista bohémien renda altrettanto scapestrata la sostanziosa discussione sul valore economico dell’opera autentica. Soprattutto se chi è chiamato a difenderla si ostini, pur in tutta onestà, a rispondere stizzito ad ogni richiesta di chiarimento.

Barbagallo di professione fa lo studioso d’arte. Non il sindaco né il rappresentante legale dell’eredità di qualcuno. Ovvio che ponga domande. Magari con la signorilità di chi è disposto a riconoscere – lo ha scritto nel suo ultimo pezzo – la buona fede dell’amministrazione della città ospitante. La quale avrebbe addirittura il merito di aver dato occasione per un ampio dibattito.

Troppa grazia! Qui pecca di eccesso lo studioso: si sbaglia. Forse la Catania che egli ha lasciato anni addietro per intraprendere i suoi studi, avrebbe scritto e si sarebbe data alla battaglia intestina. Questa che, umilmente, ci limitiamo a descrivere, è una Catania morta. Una Catania che ha centinaia di scriventi su fogli ben più prestigiosi del nostro, ma che ha taciuto. Una Catania disseminata di intellettuali illuminal-illuministi e laical-laicisti, che sognano un mondo nuovo e un uomo nuovo, ma intanto trafficano tra loro, a cena o in salotto, per succhiare anche l’ultima goccia a quelli attuali. E che sanno sempre da che parte schierarsi. Intellettuali con tanto di cadrega al seguito, assillati solo da come fare per lasciarla in eredità alla propria eletta prole. E che il volto non se lo copriranno certo per la vergogna di aver fatto illuminare davvero, anche se per poco, la loro città – divenuta ormai la loro mantenuta – da “un ragazzotto pretaiuolo, che fa lezione dal basso di un giornaletto reazionario”.

Questa la scoperta più dura da digerire, che Catania, la nostra bella Catania, nell’anno di grazia 2010 si sia scoperta orfana di – tanto per fare qualche nome recente – Momigliano, Muscetta, Mazzarino, Ottaviano, La Via …


Pubblicato il 14 gennaio 2011 su www.cataniapolitica.it

20 gennaio 2011

TROTSKISMO SICULO


di Antonio G. Pesce- Prima che ci si mettessero anche Berlusconi, Fini e camerati vari a far loro concorrenza, beghe espulsioni e scissioni erano appannaggio degli uomini del Pci. Si racconta ancora oggi della calorosa “dialettica interna”, che i soliti “elementi reazionari” allora descrivevano come una guerra fratricida. Alcune volte davvero non si poteva farne a meno, soprattutto quando i carri armati sovietici marciavano sui cadaveri del proletariato disobbediente. Altre, si poteva eccome, trattandosi di mero puntiglio personale regolato a colpi di mozione.

Il referendum di Caltagirone sembra aver fatto tornare la sinistra italiana a quei non proprio idilliaci tempi. Da una parte la nomenclatura, lo statuario compagno baffone che detta la linea. Dall’altra i trotskisti di turno, quelli della rivoluzione perenne e della dittatura della base. O forse si tratta solamente di persone di buon senso, che al governo della Sicilia volevano andarci in un modo più “democratico”, e magari senza il tanto vituperato (fino al giorno prima) Lombardo.

Il fatto è, però, che il Trotski del Calatino, Gaetano Cardiel, rimosso da segretario del Pd di Caltagirone, ha vinto alle urne: il 97 % dei votanti (2124) ha preso le armi contro l’alta intellighenzia del partito e non l’ha mandata a dire. E il Politburo ha potuto solo gridare al complotto dei “controrivoluzionari”: per Giuseppe Lupo, Antonello Cracolici e Concetta Raia è tutta colpa di Berlusconi e dei suoi “sgherri” infiltrati per far saltare l’accordo col governatore autonomista. Come se Enzo Bianco – uno che le elezioni le vince eccome – e Mario Crisafulli non fossero in grado di sentire l’umore di una base, “educata” per anni alla lotta morale contro lo strapotere di un signore, Raffaele Lombardo, fino a ieri segnalato a sinistra tra i peggiori uomini politici dell’Isola.

Stando così le cose, non è proprio possibile che in una bella città, storicamente assai attiva in campo politico, ma in fin dei conti abbastanza piccola perché, grosso modo, ci si conosca tutti, quale è Caltagirone, duemila elettori del Pd abbiano voluto esprimersi – magari a torto – contro le scelte del vertice? Siamo sicuri che ogni “contrapposizione dialettica” sia opera di strane manovre, e non già il frutto di una pregressa educazione delle masse, repentinamente mutata col mutare degli interessi della classe avanguardista?

Eppure, se tatticamente l’operazione di Lupo e compagnia è fallimentare, strategicamente potrebbe avere delle buone ragioni. La sinistra italiana – e soprattutto quella siciliana – non governa. Quando lo fa, comincia col voler rispondere alle necessità degli operai, e finisce col dar soddisfazione agli svaghi degli intellettuali. E questo perché dopo Marx, Gramsci e la morte del comunismo, la sinistra e i reduci dell’utopia non hanno saputo – o potuto – analizzare bene il reale per dedurne un nuovo linguaggio. In parole povere? Hanno navigato a vista, senza sapere lo scopo della propria azione politica.

Qualcuno doveva rompere l’incantesimo della bella addormenta. Ci pensò nel 1998 Massimo D’Alema al governo della nazione. Ci hanno pensato in Sicilia Lupo e Cracolici, anche se con risultati affatto differenti. Ma non è un caso che, un paio di mesi dopo l’accordo con Lombardo, il Pd siculo tappezzava la regione di manifesti, per comunicare quanto avesse strappato al baffuto di Grammichele. Era – si voleva che fosse – il segno delle possibilità di governo di una sinistra riformista, capace di dire anche dei sì, di assumersi anche delle responsabilità. Non mancò il coraggio – si dirà un giorno – anzi vi abbondò. E quando i pastori accolgono, per troppa bontà, il lupo che scacciavano nel ventre del gregge che difendono, non sono uomini di pace ma imprudenti. Ecco: la sceneggiatura era perfetta, ma la parte non è tagliata per l’attore protagonista.

Tuttavia, anche i trotskisti devono tenere presente alcuni limiti: cadere proni davanti allo stato attuale di cose non è più errato che ergervisi sempre a giudice. Perché le idee che non cammino con le gambe degli uomini per le strade accidentate degli uomini, sono idee più che zoppe. Sono idee fallimentari.


Pubblicato il 12 gennaio 2010 su www.cataniapolitica.it

14 gennaio 2011

SIGNORI, SIETE STATI SFIDUCIATI !



di Antonio G. Pesce- La fortuna, quando arriva, arriva. È un inizio d’anno davvero fortunato per la Sicilia. Pare sia siciliano il vincitore della lotteria d’Italia. Un emigrante in cerca di fortuna a Genova. Il resto dei siciliani, invece, senza doversi spostare dall’Isola, hanno fatto tredici. E tredici anche per gli abitanti della provincia etnea. Peccato che, in questi ultimi due casi, la dea bendata avrebbe potuto fare a meno di passare dalle nostre parti.

È uscita la classifica Governance Poll, il sondaggio del Sole24ore sui presidenti di regione, di provincia e sui sindaci più stimati dal proprio elettorato. La Sicilia ha fatto tredici: Lombardo è al tredicesimo posto, come il suo eterno rivale Castiglione nella classifica delle province. In fondo a quella dei sindaci ci troviamo – ma guarda che sorpresa! – il sindaco di Catania, il senatore Stancanelli – ma qui il caso è da trattare con le pinze, dal momento che, a modesto avviso di chi scrive, si tratta di un caso “drammatico” (per quanto drammatiche possano essere le vicende della politica italiana, sempre in bilico tra farsa e siparietto).

Sono dati attendibili. Certo, si tratta di sondaggi, ma sono sondaggi che, quando vanno bene, solitamente vengono accreditati da coloro che, manco un paio di anni dopo, dovranno giustificarsi davanti al boia che credevano amico. Lombardo è tra questi. Perché perfino negli ultimi mesi, quando si è trattato di legittimare la propria posizione, ha tirato in ballo i dati passati. Ed ora? Ed ora c’è da spiegare perché, escludendo veneti, toscani e lombardi – si potrebbe sempre dire che i soldi tappino molti buchi – i siciliani stiano perdendo fiducia nel proprio governatore più che i calabresi in Scopelliti, i lucani in De Filippo, i liguri in Burlando. Perché Lombardo è un ‹‹ribaltonista››? Ma allora come spiegare il fatto che, nonostante Atene pianga, Sparta non rida? Castiglione è, egli pure, tredicesimo nella propria classifica. Prima di lui non ci sono solo gli spavaldi rappresentanti delle grandi metropoli, ma i suoi compagni di partito di Caserta, Pordenone, Isernia. Perfino quello di Catanzaro, Wanda Ferro, e di Ragusa, Giovanni Francesco Antoci.

Più grave la posizione di Stancanelli. Tra gli ultimi in Italia. E passi. Ma se guardiamo in fondo a alla classifica, vi scorgiamo nomi legati a vicende ben più pesanti da scontare che non qualche parola di troppo. Diciamoci la verità: Stancanelli non deve giustificare la propria estraneità ad un disastro come quello di Scaletta Zanclea, che ha pesato sulla credibilità di Buzzanca a Messina, né “Striscia la Notizia” lo ha messo in croce come, invece, ha fatto col sindaco di Palermo, Cammarata. Stancanelli non ha neppure la propria città su tutti gli schermi del mondo, come accade per la Napoli della Jervolino. Eppure è 99esimo. Gli altri sono, rispettivamente, al 100esimo posto, al 102esimo e al 103esimo. Chiudono una sfilza di città rette da commissari. Figurarsi.

Lo fa notare lo stesso giornale di Confindustria, che ha commissionato il sondaggio: va giù la politica siciliana. Perché? Perché sembriamo un altro mondo. Diciamolo con la crudezza che il caso merita. Siamo in un altro mondo. Un mondo fatto ancora di lazzi, frizzi, questioni non troppe chiare, altre assolutamente tenebrose. E soprattutto immobilità. Sembra che nessuno faccia in passo avanti. E, quel che è peggio, pare anzi che ci si metta d’impegno per non farlo fare neppure agli altri.

Lombardo e Castiglione scontano l’errore di aver promesso più di quanto abbiano mantenuto. La cura del primo ancora non la si vede (nonostante alcune cose buone), mentre la presenza dell’altro non si nota sul territorio (nonostante, poi, non manchi di attenzione alla vita sociale e culturale della provincia). Su Stancanelli pesa la vacuità dell’immagine che si è data. Chi è Stancanelli per la città che amministra? Dove vuole condurla? Cosa ne vuole fare? Sappiamo solo che considera il municipio “la sua casa”, e butta fuori chiunque gli protesti contro. Per il resto, Catania non era facile da gestire dopo il crollo economico, e meno lo si fa e più ingovernabile diventa.

Catania ha bisogno di una svolta. Ne ha bisogno la Sicilia tutta. L’elettorato non è così passivo come descritto da chi, poi, non ne tollera le scelte democratiche in cabina elettorale. E incomincia a muoversi. Come l’Etna: piccole scosse, poi silenzio. Ti svegli di soprassalto, magari un mese dopo, perché ti sta girando tutta la casa.



Pubblicato l'11 gennaio 2010 su www.cataniapolitica.it

12 gennaio 2011

Sicilia 'troppo' ricca anche per il turismo



di Antonio G. Pesce- Ieri, da queste pagine, G. Grillo si chiedeva quale fosse la verità sulle condizioni economiche dell’Isola. C’è chi dice che stiamo crescendo più della Lombardia. Non è che sia impossibile: le statistiche parlano di flussi di danaro, non sempre tengono conto di quanto ne finisca nelle tasche della gente. Di certo, c’è che stiamo diventando troppo ricchi, se possiamo permetterci di spendere e spandere soldi pubblici per progetti di lavoro più che a tempo ad elezione determinata, e sprecare per giunta occasioni di incremento turistico.

Il sito dell’assessorato siciliano al turismo lo dice chiaramente: «Si comunica che la Regione Siciliana non sarà presente all’edizione 2011 della “Borsa Internazionale del Turismo” di Milano». Quello che la Regione non comunica è il perché: sembra costi troppo. Sembra che tra il mezzo miliardo di progetti e di cantieri scuola, borse di lavoro e offerte di varia carità sociale non si sia potuto trovare non più di un milione di euro.

Non è che la promozione turistica della Regione abbia mai funzionato tanto. Il più delle volte Il Bit è stato una grande passerella pagata con i soldi del contribuente. Tanto, che alcuni operatori acquistavano spazi propri. Evidentemente, i templi, il barocco, il paesaggio e la buona cucina erano solo un optional: intanto bisognava mostrare la faccia della politica.

Però, alla Regione mancano di danaro e di iniziativa quando l’organizzazione è altrui. Quando si tratta di prodotti insigniti del marchio “Doc” della nostra politica, si svegliano e trovano le risorse per autoprodursi. Perché non è che noi siciliani non avremo momenti di promozione: è che ce lo faremo in casa. Come lo strutto, le conserve, il pane nel forno a pietra. Sarà il «Meeting Euromediterraneo del Turismo», che Palermo ospiterà a maggio.

Vedremo quanto risparmieremo, quanti operatori si muoveranno a maggio – si vorrebbe puntare al turismo fuori stagione, perché promuovere quello stagionale, col brutto clima siciliano, proprio non è possibile! – che resa totale avremo. Intanto, a Milano non ci saremo. L’Europa è lontana, e lontano il mondo. Se continua così, finiremo a considerare il turismo come una grigliata tra amici dalle parti di Agnone Bagni.


Pubblicato l'8 gennaio 2010 su www.cataniapolitica.it

10 gennaio 2011

IL CIRCO DELLE ASSUNZIONI (SICULE)


di Antonio G. Pesce- L’Epifania s’è portata via le feste, ma ci ha lasciato la solita Sicilia. Talmente usuale, che viene il dubbio che ad altro qui non si possa aspirare. Perché mentre gli italici stomaci facevano incetta di colesterolo, i siculi trovavano sotto l’albero un po’ di zucchero. Buono, appunto, per farsi cariare i denti, prendere peso e restare sempre a stomaco vuoto. Senza sostanza insomma.

Nel nuovo anno consumeremo una quantità impressionante di calorie. In ordine, abbiamo i cantieri trimestrali per 30 mila disoccupati, che guadagneranno appena 31 euro al giorno per tre mesi (quelli giusti perché la politica si prepari al voto), con una spesa per l’erario pubblico di 222 milioni. Poi, continueremo a farci salire la glicemia con la proroga di due anni al contratto dei 23 mila Lsu, che comunque hanno visto saltare la stabilizzazione tanto promessa. Quanto spenderemo? 310 milioni di euro. Per finire, altri 6 milioni li spenderemo per l’ultima trovata caritatevole del presidente Lombardo, il quale preoccupato per il sostentamento delle persone indigenti e l’inserimento sociale di tossicodipendenti ed ex detenuti (temi assai seri), ha bandito una borsa lavoro di 500 euro mensili. E non dimentichiamo l’antipasto: la stabilizzazione di 4.800 precari della Regione. Ormai siamo oltre soglia 144 mila dipendenti.

Tutto questo la politica lo chiama lavoro. L’assessore alla famiglia, Andrea Piraino, per difendere le sue «borse di lavoro» dagli attacchi di Confindustria Sicilia e dei sindacati, una volta tanto uniti (e già questo è assai indicativo), ha fatto leva sui sensi di colpa di quei siciliani (ormai pochi) che un lavoro continuano ad avercelo, o che quanto meno hanno una pensione che permetta loro di campare.

È lavoro questo proliferare di posti senza occupati, di impiego senza impiegati? No. È invece una fabbrica di consenso usa-e-getta, per una politica che non ha saputo costruire la propria fortuna sul risparmio della speranza dei suoi elettori. Tuttavia, attenzione al moralismo: gli indigenti in Sicilia ci sono davvero, e davvero per molti anni c’è chi ha basato la propria vita su una promessa di lavoro quale è il precariato. Fare la rivoluzione sulle spalle di chi non può concedersi nemmeno lo svago del voto, e che probabilmente sarà arruolato tra le file dei famuli alla prossima tornata elettorale, è ignobile tanto quanto strumentalizzarne la fame di occupazione.

Però, se il peso della verità non può essere addossato sull’indigente, si può chiedere alla politica di farsene carico. A tutta la politica, non solo a Lombardo. Semmai, quest’ultimo è reo soltanto di non aver invertito la rotta, e aver già mostrato quale sarà quella dei prossimi mesi – di quei mesi che è probabile ci portino al voto.

Ed è per verità – si tappi le orecchie chi, purtroppo, ha lo stomaco svuotato dall’indigenza – che bisogna dare il vero nome alle cose. Questo sistema che pensa di far vivere sulla povertà più che sulla ricchezza, e che anzi ha necessità di produrre miseria per continuare a funzionare, è la follia che paghiamo tutti con la perdita di ogni aspettativa. Perché un lavoro tanto al chilo non è utile a nessuno, se non per chi se ne fa uso per la propria scampagnata elettorale. Non forma, non responsabilizza, e tiene sempre la persona sull’orlo dell’abisso morale ed economico. Inoltre, mantiene in Sicilia i più poveri di formazione, ai quali peraltro non viene data nessuna possibilità di reale miglioramento, e allontana i più ricchi, esclusi da un sistema che arruola solo sulla scorta di leggine promulgate decenni fa, senza più concorsi e con la meritocrazia fatta su misura della locale sezione del partito.

Tutti hanno diritto al lavoro. Anche i laureati siciliani, che vanno al nord a trovare lavoro. Anche i docenti, i ricercatori, i professionisti siciliani, assunti per anni con contratti atipici o con stage. Il tema è, dunque, troppo serio per affrontarlo con i toni melensi dei nuovi missionari siculi in giacca e cravatta.


Pubblicato il 7 gennaio 2010 su www.cataniapolitica.it

FATEVI BAMBINI !




di Antonio G. Pesce- L’altro giorno ho fatto il presepe. Come ogni anno da quando – ne avevo 10 – la cosa passò in eredità a me. Sono stato sempre erede di patrimoni che nessuno mi ha mai lasciato. E che altri non hanno mai avuto voglia di contestarmi.

Posso capire che ad alcuni di voi non interessi sapere come io trascorra la giornata, o come mi avvicini alle festività ormai imminenti, e soprattutto al santo Natale. Però dopo, sotto la doccia – perché uno che è stonato come una campana, anche sotto la doccia preferisce non commettere spropositi canori – mi sono venuti in mente alcuni pensieri di cui vorrei farvi partecipi. Sapete com’è: io sono filosofo – di quelli scarsi sì, ma filosofo. E i filosofi hanno tante parole da dire, ma poche da donare. Io queste ve le dono con tutto il cuore. Perché forse, passata ormai da un pezzo la trentina, posso permettermi di non essere egoista. E abbastanza sincero da non apparire melenso.

Ho aperto la scatola dove tengo i pastorelli, il bue, l’asinello e tutta la Sacra Famiglia. C’era un’usanza da rispettare, ed io ero in ritardo di un paio di giorni (ad andar bene, perché a casa mia il Natale lo si cominciava ad aspettare da Santa Lucia, poi dall’Immacolata). È che, però, l’età ti rende imprudente non tanto nei confronti della vita che vivi o di quella che vivrai, ma di quella che hai vissuto. Ti assale il passato. Quante feste con quante persone! Eppure, si torna indietro ad alcuni momenti. Quando si nasce in un senso che né la psicologia né la biologia, né tanto le griglie dell’anagrafe riescono a comprendere.

Alla fine di quel pozzo di ricordi mi sono rimasti da sistemare due pastorelli. Uno avrà non meno di sessant’anni. Era del nonno Giuseppe. Ricordo una sola volta un presepe a casa sua. Poi, cominciammo a farlo dai miei. Il nonno aveva ricavato delle scarne casette da pezzi di legno; sopra, come tetto, a mo’ di tegole aveva messo un po’ di cartone increspato; le aveva colorate con la tempera che vendeva nella bottega. Il Natale iniziava così. Ci si radunava per la Vigilia attorno al focolare, non si aspettava neppure la mezzanotte. Si mangiavano le scacciate, un bicchiere di vinello nostrano, un panettone e una bottiglia di spumante. Si tirava un po’ di più per la notte di S. Silvestro. Nonno soleva allo scoccare del nuovo anno andare in terrazzo e sparare un paio di colpi con la sua doppietta.

L’altro pastorello è di plastica. Una pastorella, per l’esattezza: rubiconda in viso, il grembiule, nella mano sinistra porta un mazzo di rose e sotto l’ascella destra un cagnolino. Lo comprammo con mia madre una sera d’Avvento di circa 25 anni fa. Agata, mia sorella ed artista della famiglia, riteneva il presepe troppo scarno. Mamma mi portò nel negoziato vicino casa, e sul bancone c’erano una decina di questi personaggi. Scelse la donna con cagnolino e rose. Lo pagò 500 lire. Io non fui molto contento della scelta, ma ogni anno gli ho trovato un posticino nel mio presepe. Ricordo che Agata faceva le montagne. E che io, la sera verso le sette, mi mettevo davanti alla grotta suonando un campanellino e recitando qualche preghiera.

Ora mia madre invecchia, nonno Giuseppe non c’è più, e neppure il focolare con attorno noi nipoti. Però è lì che ritorno ogni anno. A quegli anni. Non ricordo molto di ciò che succedeva prima, e di ciò che è accaduto dopo ne ho potuto fare a meno. Ma di quegl’anni no. Quando ci si sforza di tornare indietro, e proprio non ci si riesce, allora è proprio in quel punto che affondano le nostre radici. Che, se profonde, non gelano mai. A quel bambino bisogna ritornare, per trovare un senso alla vita. E a quel bambino si tornerà, anche quando la pianta avrà fruttificato. Verranno gli anni che nuovi focolari saranno accesi, perché il dovere ci chiama ad essere tradizione viva per chi in noi vede (magari nostro malgrado) degli esempi. Ma è a quel focolare che noi siamo venuti a radicarci. Quel che noi saremo per altri, altri lo sono stati per noi.

‹‹Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso›› (Mc 10,15). Sotto la doccia mi son dato pure alla teologia. E forse sarò stato troppo ardito, ma mi piace pensare che, ancor più che l’Amore di un Crocifisso, possa portare pace la Tenerezza di un Bambino. Quella bellezza, coccolata dalla notte e svezzata dall’alba, in cui tutto si può sperare.

Questo l’augurio ad ogni lettore, questo quel che mi è accaduto qualche giorno fa – che accade un giorno ogni anno da diciassette a questa parte: farsi bambini, per cominciare a non temere di sperare.


Pubblicato il 23 dicembre 2010 su www.cataniapolitica.it