"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

7 dicembre 2011

Riforma della Riforma: l’Episcopato Francica Nava tra i Pontificati di Leone XIII e San Pio X



La Riforma e Francica Nava


Di Antonio G. Pesce - Domenica 4 dicembre, nella chiesa di S. Giuseppe al Transito, si è svolta la conferenza dal titolo ‘Riforma della Riforma: l’Episcopato Francica Nava tra i Pontificati di Leone XIII e San Pio X’. A moderare gli interventi di don Antonio Ucciardo, docente di Teologia all’ISSR ‘San Luca’ di Catania, e del prof. Antonio Blandini, storico e giornalista, è stato il prof. Giuseppe Adernò, preside dell’istituto ‘G Parini’.
Adernò ha richiamato le grandi doti morali del vescovo Francica Nava, e ne ha sottolineato anche quelle intellettuali: fu, infatti, la capacità speculativa, orientata dal pensiero tomista, a porlo all’attenzione delle alte gerarchie ecclesiali, nonostante uno zio vescovo avesse osteggiato il dogma dell’infallibilità papale sancita dal Concilio Vaticano I.
Una figura, quella del card. Francica Nava, davvero imponente, anche se non molto conosciuta. A tratteggiarla lucidamente è stato Antonio Blandini, che ne ha messo in risalto l’inclinazione sociale in una Catania sobillata da un anticlericalismo di maniera.
‹‹Catania ha sempre ingoiato i suoi figli più gloriosi›› ha aggiunto Blandini, raccontando un aneddoto poco conosciuto. Di ritorno in città, il Cardinale venne avvisato dal proprio cocchiere che in via Etnea era in svolgimento una manifestazione anticlericale, e che dunque era pericoloso attraversala. Con decisione, Francica Nava gli ordina di proseguire, e mentre la carrozza sfila tra due ali di folle, quello che ne raccoglie non sono fischi ed insulti, bensì l’ossequio della città. Del resto, quando nel 1904 si parlò di un possibile suo trasferimento a Palermo, Catania si mobilitò con una raccolta di firme, che raggiunse lo scopo di convincere la Santa Sede a lasciarlo ai catanesi.
Esempio di carità, forzò il cordone sanitario stretto su una Messina sepolta dal terremoto del 1908, al fine di portare la propria solidarietà al confratello vescovo e alla città peloritana. Da qui verranno alle pendici dell’Etna migliaia di orfanelli: per loro, Francica Nava pensò ad un istituto agrario, Il Valdisavoia.
Un cardinalato all’insegna del progetto riformatore di un (apparente) conservatore Pio X, al secolo Giuseppe Melchiorre Sarto. Del quale, purtroppo, pochi sanno essere stato il primo papa della storia ad aver attraversato tutti i ‘gradi’ della gerarchia: da parroco di campagna a parroco del Mondo.
Antonio Ucciardo, infatti, nel proprio intervento ha voluto mostrare come vi siano chiarissime analogie tra l’ispirazione ‘riformatrice’ di Pio X e quella che sembra emergere sempre più come caratteristica saliente del pontifico di Benedetto XVI. A cominciare dal motto, che se del primo è ‘Instaurare omnia in Christo’ (instaurare ogni cosa in Cristo), quello sotto il quale si può leggere l’attuale pontificato è ‘Nihil anteponere Christo’ (non anteporre nulla a Cristo), cioè, in fin dei conti, la formulazione ‘negativa’ della prima.
Lettura teologica di ampio respiro ed originalità, che non ha mancato di trattare anche il tema delle riforma liturgica verso la quale si sta muovendo papa Ratzinger, e di cui il Summorum Pontificum è il primo momento. Il momento, possiamo dire, in cui è stata restituita alla Chiesa la propria ‘continuità liturgica’: con questo documento del 2007, il Papa ha permesso ai sacerdoti – non più sotto previa autorizzazione vescovile – la celebrazione in rito romano antico (cioè secondo i libri liturgici in vigore prima della riforma degli anni ’70), purché vi sia un gruppo di fedeli che lo richieda.
Proprio don Ucciardo, alla fine della conferenza, ha celebrato secondo il messale tridentino, coadiuvato dal gruppo liturgico che, proprio nel nome, ricorda il card. Francica Nava, e che ha in Fabio Adernò e Piersanti Serrano gli animatori di un folto gruppo di chierichetti. E di un altrettanto nutrito numero di fedeli, che chiede soltanto rispetto per il proprio ‘carisma’.

Pubblicato il 7 dicembre 2011 su Catania Politica

Bentornata Laura in una Catania rassegnata

Bentornata Laura in una Catania rassegnata
di Antonio G. Pesce - Bentornata a Catania, Laura. Bentornata nella città che ti ha imposto domande così grandi, per le cui risposte non ti basterà la vita intera. Perché quelle domande, ormai, sono tutta la tua vita.
Bentornata qui, cara Laura, bentornata nella normalità della tragedia: adesso che sei tornata, quella Catania che ha provato a dimenticarti, potrà finalmente archiviare la tua vicenda come una delle tante ‘fatalità’ a cui si è rassegnata. Non sei l’unica, Laura, non lo resterai: ogni anno Catania e la sua provincia dimenticano carpentieri caduti dall’impalcatura, operai morti tra i denti di qualche macchina, autotrasportatori uccisi dal sonno che non potevano smaltire, eccetera. Ogni anno la mancanza di speranza inghiotte una fetta consistente della sua gente migliore. Ci siamo rassegnati anche al baratro dell’educazione civile. Mentre leggi queste righe, in qualche quartiere della città un giovane finisce nelle spire dell’illegalità, qualche altro viene instradato allo spaccio o all’estorsione.
A Catania ci si rassegna presto. A Catania si fa presto a dire che non si poteva far nulla. A Catania si fa presto a derubricare tutto a ‘incidente di percorso’. Non farti fare questo torto, cara ‘collega’. Non cedere alla tentazione – è una tentazione vera e propria – di pensarti come ‘caso’, un evento tra gli altri, e così lasciarti andare al gorgo dell’oblio. Tieni per te – tienitela cara, perché ormai è tutt’uno con te – la pena del tuo cuore, perché questa ‘piazza’ non merita ancora (non è preparata, non è ancora matura) ad una riflessione collettiva sul senso della vita. Tieni per te questa pena, questa ricerca del senso dell’evento in cui è data oggi la tua esistenza. Ma condividi con noi – se è il caso, gridacelo in faccia – il male civile che ci affligge.
Non lasciarci soli, Laura – noi, che ti abbiamo lasciata sola. Non dimenticarci, Laura – noi, che abbiamo fatto di tutto per dimenticarci di te. Stacci vicino, Laura. Catania, ormai, ti è nelle vene. Ti è entrata dentro come il più inguaribile dei mali. Tu entrale dentro, come la più passionale delle voci.
Catania, paralizzata dalla mancanza di speranza, ricominci a camminare anche grazie alla tua forza. Non puoi più mutare il tuo passato, Laura, ma puoi ancora contribuire cambiare il futuro di questa città. Non sarebbe poco, e donare speranza è il più grande atto di riscatto che una vita possa compiere.

Pubblicato il 6 dicembre 2011 su Catania Politica 

Consiglio comunale offline

Consiglio comunale offline
di Antonio G. Pesce – Saro D’Agata, Francesca Raciti e Manfredi Zammataro sono stati gli ultimi a dire che c’era un problema di comunicazione tra il Palazzo e la città. Poi, anche loro sono scomparsi. Inghiottiti nel buio che sta avvolgendo il Consiglio comunale.
Un po’ vecchiotto il loro ragionamento: bisogna riattivare il servizio di trasmissione televisiva delle sedute. Un po’ datato, perché tanto c’è lo streaming web, la pagina del sito comunale in cui viene trasmessa la diretta dei lavori d’aula. Manco il tempo di dirlo….
Anche dal web sono scomparsi. Da alcune sedute, infatti, è venuto meno perfino il servizio internet, che almeno tentava di mettere una pezza a questa indecorosa situazione. E salvava la faccia ad un’amministrazione, che si era impegnata a rifinanziare nottetempo il capitolo di spesa per la copertura della televisiva dei lavori d’aula.
Vi saranno più che spiegabili motivi tecnici: troppo ingiusto pensare –come ha fatto la Raciti nell’ultima seduta utile – che si voglia imbavagliare il Consiglio. Neppure il più mefistofelico tra i sodali di Stancanelli – che oltre all’opposizione, deve pensare anche alla propria maggioranza – potrebbe architettare qualcosa del genere. Più semplicemente, si ritiene che la trasmissione dei lavori, quale che ne sia il mezzo, sia un optional, e che se c’è tanto meglio, ma se non c’è non cade il mondo.
Tuttavia, non pare che si sia così parchi di mezzi, quando c’è da tenere conferenze stampa, annunciare cambiamenti epocali, vendere il prodotto politico ad una città che non ha più nulla da spendere per comprare alcunché. Tutta colpa dell’amministrazione? La colpa c’è. La massima parte pure. Ma non tutta. I partiti catanesi, i nostri consiglieri, le loro associazioni, quanto fanno per rendere pubblici i loro dibattiti? Da mesi manca la tv in aula. Da un anno noi di Catania Politica invitiamo ad un riassetto del sito web comunale, e ad una maggiore cura del servizio streaming. Non è che si siano visti miglioramenti. E davvero, poi, non c’era come sopperire alla mancanza comunale? Davvero non c’era un sito, un blog, una paginetta Fb di qualche consigliere di municipalità, che potesse ospitare lo streaming? Lo si fa per Santoro, Crozza, le assemblee di partito, lo si poteva fare anche per il senato della politica cittadina, della quale tutti, almeno quando sono seduti sullo scanno, dicono di voler rendere più democratica.
Per ora basterebbe renderla più trasparente.

Pubblicato il 29 novembre 2011 su Catania Politica

Emergenza criminalità a Catania… ma non per il Consiglio comunale

Emergenza criminalità a Catania… ma non per il Consiglio comunale 

di Antonio G. Pesce - Ieri sera Consiglio straordinario sulla legalità in città. Sapete quanti erano i consiglieri in aula? Quanto le dita delle mani! Erano dieci. Dico, signori: dieci (10)! Mi sa che qui nessuno si è reso conto della situazione. Mi sa che qui abbiamo sbagliato candeggio, quando abbiamo scelto i nostri ‘candidati’ alla Cosa Pubblica.
Ora mi si dirà: moralismo! Populismo! Bene, sono moralista, sono populista. Ma con una storia alle spalle, come quella che ha Catania, non si può non metterci il carico nella partita per la sicurezza. Siamo sinceri: non è che ieri sera, ci fosse stato il tutto esaurito come mai c’è stato (mai, e se dico mai, intendo dire ‘mai’, neppure per il bilancio. Mai!), da oggi la nostra città sarebbe stata diversa. Non è che i nostri commercianti sarebbero stati liberati, già all’ora della colazione, del giogo dell’estorsione, o i turisti non sarebbero più stati scippati perfino nella centralissima via Etnea. E sia chiaro: non è che il comune di Catania, costituendosi parte civile nel processo in cui è vittima la nostra cara Laura Salafia, avrebbe risolto i problemi di una persona che, innanzi tutto, deve fare i conti col proprio destino – non quello che è accaduto, ma quello che accadrà, le scale che, ancora per lungo tempo, non potranno essere salite con i propri piedi; la detersione del corpo che non potrà essere fatta, ancora per lungo tempo, con le proprie mani, ecc.
Sia chiaro: non è che al Consiglio comunale si cambi la Storia dall’oggi al domani. Signori, siam seri: già è tanto che approvino il bilancio a rotta di collo, figurarsi se riescano a farsi interpreti della sorte di un popolo. Non è questo il punto. Il punto è che questa gente – e qui mi fermo nella qualificazione – ci rappresenta. Signori lettori, volete che vi spieghi che vuol dire? Vuol dire che ieri sera la città di Catania si è schierata contro l’illegalità diffusa per non più di un quarto. Cioè tre quarti della città non ha a cuore la prosperità e la dignità di questo popolo – la Patria di Agata!
Ora, il problema è questo: chi è il peggior nemico della patria di Agata? Chi la vuole assaltare, o chi, non per malafede ma per stupidissima incuria, gli apre le porte dall’interno? Chi il vero nemico del cittadino: l’antistato che sempre ci sarà, o lo Stato che non vuole combatterlo, perché frattanto ha di meglio da fare nei bar della città, magari posteggiando in doppia fila l’auto perché non trova parcheggio davanti al bancone?
Un piccolo appunto per concludere: ieri sera non c’era la diretta televisiva. Ancora i capitolo di spesa non è stato finanziato. E questa non è una novità. La novità è che da qualche giorno non solo è difficile collegarsi al sito del Comune, perché a volte è irraggiungibile, ma perfino la diretta streaming.
E ieri sera i cittadini di Catania hanno potuto vedere la trasmissione di Santoro, ma non sapere quello che accadeva ad un passo da casa loro. Tanto per capirci.

Pubblicato il 25 novembre 2011 su Catania Politica 

Consiglio comunale: scontro “autonomista” sui servizi sociali

Consiglio comunale: scontro “autonomista” sui servizi sociali 

di Antonio G. Pesce - Problema Servizi sociali. Credeteci. E un piccolo colpo di scena. Saro D’Agata (Pd) forse ha intuito qualcosa che noi non sappiamo? Intanto, ha chiesto l’appello per la seduta di proseguimento di questa sera. Non che fosse già prevista – infatti, è una seduta di proseguimento. Però D’Agata, proprio all’inizio della seduta, lo chiede per quella successiva, qualora ieri sera fosse mancato il numero legale. Ecco, appunto…
Il capogruppo Pd chiede al sindaco, attraverso l’assessore Torrisi, che sia cambiata l’ordinanza circa il deposito dei rifiuti: finora, i cittadini possono portarli fuori dalla propria abitazione dalle 19 alle 23. Le ragioni? Torrisi spiega che, in estate, era necessario per far sì che giacessero il meno possibile in strada, onde evitare cattivi odori. Ora, coll’arrivo dell’inverno, si può pensare ad un anticipo di qualche ora (ancora non attivo, quindi facciamo attenzione: rimane in vigore l’attuale ordinanza). Inoltre, D’Agata ha chiesto di sapere come procede la raccolto differenziata. A stretto giro di posta, Torrisi snocciola i primi dati: siamo passati dal 5% al 16, ma bisogna fare di più, perché l’obiettivo è fissato al 35%.
Manlio Messina (Pdl) ha incentrato il suo intervento sulla cura del centro urbano. Due spine, attualmente: via Umberto al buio, con tutto quello che sta comportando (una specie di Far West), e la cura di via Crociferi, tornata alla ribalta anche per via dell’affare del Collegio dei Gesuiti. Torrisi ha garantito, per quest’ultimo caso, che tutto ciò che si può fare, si sta facendo. Ma non è mica colpa dell’assessorato, se appena pulita, la strada torna ad essere sporca: quindi, in poche parole, i catanesi dimostrino un po’ di collaborazione (e questo lo diciamo noi, che avremmo parlato anche di civiltà che manca!). Per quanto riguarda, invece, la mancanza di illuminazione in via Umberto, ciò sarebbe dovuto ad un problema tecnico, che doveva già essere risolto. Evidentemente, non si tratta di un banale fusibile!
Letterio Daidone (Pdl) ricorda in aula le difficoltà dei siciliani con le ferrovie. La tratta Catania-Palermo in cinque ore? Non basta. Ecco la riduzione dei treni a lunga percorrenza. È da un po’ di tempo che Trenitalia ci prova, magari scontentando i siculi in discesa, ma lasciando immutate le tratte in salita. Ora, pare che il piano lo si stia facendo completo. Insomma, snodo a Roma per le grandi città del Nord. Che dire? Massima collaborazione con Daidone, e con ogni altro amministratore che vorrà porre all’attenzione dell’opinione pubblica questo ennesimo atto di apartheid a danno del Meridione (e della Sicilia soprattutto).
Manfredi Zammataro (LaDestra-As) rincara la dose su via Umberto, poi ricorda all’amministrazione che, durante la discussione del bilancio, si era impegnata a ripristinare al più presto la diretta televisiva che ancora non si vede. Infine, chiede che sul caso Farmacia il comune di Catania si costituisca parte civile. Anche Francesca Raciti (Pd) chiede il ripristino della diretta televisiva, per far vedere che cosa accade ‘dentro il Palazzo’.
Agatino Tringale (Autonomia in Movimento) la manutenzione degli impianti sportivi se l’è legata al dito. ‹‹Purtroppo – dichiara il consigliere – l’80% degli impianti sportivi versa in uno stato di abbandono››. E tira fuori la lista: il ‘San Teodoro’ di Librino, sotto scacco dei vandali; a Picanello, un altro impianto inagibile, e per cosa? Per la mancanza di recinzione; il ‘Duca d’Aosta’ al buio (e dunque inagibile) nelle ore serali; il Goretti privo di illuminazione e il campo di Nesima senza tribuna, e col manto dissestato da interventi (poco competenti) dei cantieri scuola; infine, il PalaNesima, un ‹‹campo che farebbe invidia ad altre città›› (ma non nelle condizioni attuali).
Sui mondiali di nuoto chiede delucidazioni Gemma Lo Presti (LaDestra-As), e pure Giacomo Bellavia (Pdl) nel suo intervento, durante il quale ha chiesto di poter sentire l’assessore allo Sport, Ottavio Vaccaro.
Il colpo di scena si ha quasi alla fine: il diverbio scoppiato tra l’Mpa (la parte presente in aula, e questa è una novità) e l’assessore ai Servizi Sociali Pennisi. Il capogruppo del partito autonomista, Salvo Di Salvo, ha prima posto il problema delle condizioni del PalaNesima. E questo è un dato. Ma poi Di Salvo accende i riflettori sui servizi sociali comunali e sull’assessore competente Pennisi: sottolinea come la direzione servizi sociali non rispetti in toto la convenzione con gli istituti di assistenza per i minori; che nonostante l’assessore avesse dichiarato il contrario l’esiguità di fondi destinati a queste strutture sta comportando una riduzione dei minori assistiti; che i centri d’assistenza diurna non ricevono i pagamenti dal mese di aprile, e così pure i centri per i malati mentali; infine ricorda che per legge il 25% del Bilancio comunale deve essere assicurato ai servizi sociali. Insomma il capogruppo Mpa Di Salvo chiede spiegazioni su tutta la linea e, soprattutto, accusa l’assessore Pennisi di dare scarse risposte, di presentare una relazione sui servizi sociali ultra scarna e, qui la botta, di peccare d’iniziativa. I servizi sociali languono, traduciamo noi, e l’assessore sonnecchia.
La risposta di Pennisi, piccata, è il consiglio a Di Salvo (supponiamo) di evitare di strumentalizzare questioni di enorme rilevanza a fini politici (quali?). Pennisi si risiede, e ha un gesto di stizza, presumibilmente (per non scrivere sicuramente) verso Di Salvo. L’Mpa non ci pensa due volte, ed esce fuori dall’aula. Da notare, però, che il gruppo non si era presentato in aula compatto come al solito. L’Mpa, insieme alle opposizioni, è stato l’unico partito di maggioranza a non far mancare il numero legale, presentandosi sempre al gran completo. Ieri sera, ancor prima dell’abbandono dell’aula, Di Salvo si trovava con defezioni importanti. A questo, uno ci mette sopra il carico: l’esordio di D’Agata, che da mastino qual è, può aver fiutato qualcosa come un segugio.
Certo resta il fatto che sui servizi sociali, in una città come Catania, non si può scherzare. E se il senato cittadino, inoltre con il capogruppo del maggior partito d’Aula, chiede conto e spiegazioni riteniamo che le risposte debbano arrivare.
Che sta succedendo dentro la maggioranza? E in specie quali mal di pancia si manifestano dentro un Movimento per l’Autonomia in cui il “dialogo” (guerra?) tra lombardiani e leanziani è ormai sbarcato in pieno anche a Palazzo degli Elefanti? Di certo lo scontro Di Salvo-Pennisi è banale sintomo di qualcosa di più profondo covante da tempo nel corpo dell’Amministrazione comunale, tra assessori invisi a tutti ma ancora abbarbicati alle seggiole e equilibri politici da riassettare.
E pensare che ieri sera, fatto più unico che raro, il Pdl era presente con tutti i suoi consiglieri comunali.

Pubblicato il 23 novembre 2011 su Catania Politica 

Franz Cannizzo Vs resto del Mondo

Cannizzo vs resto del mondo
di Antonio G. Pesce – Nella seduta straordinaria di ieri sera gran protagonista del Consiglio il commercio cittadino. Forse. Sicuramente lo è stato il responsabile, l’assessore Franz Cannizzo, il quale, pur avendo promesso una relazione non più lunga di dieci minuti, ‘per non tediare i signori consiglieri’, ha comunque tracciato un resoconto della propria attività durato una mezz’oretta abbondante. Avendo infine tirato un sospiro di sollievo, dal momento che la mozione di censura ai suoi danni, di cui si è parlato nei mesi scorsi, era stata ritirata qualche ora prima.
Di questa mezz’ora, però, almeno dieci minuti – anche un quarto d’ora – sono andati spesi per tracciare il quadro delle attività intraprese al fine di combattere l’abusivismo commerciale, sia quello in area pubblica che su sede stabile. Cannizzo, pur non riportando dati se non alla fine del suo intervento, ha ricordato la sinergia sviluppata con gli operatori della sicurezza cittadina che ha portato a rimozione, sgomberi, confisca e chiusura di molte attività commerciale non in regola. Un problema diffuso a Catania, incrementato anche dall’immigrazione, divenuta col tempo il mezzo attraverso il quale molte associazioni criminali piazzano la merce contraffatta. Proprio per combattere questo fenomeno, l’assessorato si è fatto promotore, grazie alla collaborazione del ministero per le attività produttive, di una campagna di sensibilizzazione nei confronti del consumatore. Per quanto riguarda, poi, la lotta all’abusivismo commerciale, Cannizzo non ha escluso che, nei prossimi mesi, si possa discutere in Consiglio della istituzioni di nuovi mercati, al fine di garantire a tutti quelli che lo vorranno la possibilità di mettersi in regola.
Parte centrale dell’intervento dell’assessore – quantificabile in altri dieci minuti – i regolamenti e l’attività fieristica. Per quanto riguarda il primo punto, Cannizzo ha assicurato che si è in fase di ultimazione: presto, dunque, il Consiglio potrebbe essere chiamato a trattare dei regolamenti delle attività delle edicole, dei chioschi, dei paninari, del mercatino delle pulci, ecc. Fondamentale la riqualificazione, grazie all’apporto dell’Accademia delle Belle Arti di Catania, delle botteghe storiche, che in città sarebbero non meno di 150. Frattanto, però, l’assessorato ha attivato lo sportello telematico per le aziende; stipulato un accordo con i tassisti per l’istituzione di tariffe agevolate (il cosidetto ‘taxi amico’); ottimizzato il centro commerciale naturale di via Etnea, mentre è in fase di completamento il piano urbanistico commerciale.
Non meno vivace sarebbe la vita fieristica in città. Spilla all’occhiello dell’amministrazione, la Fiera dei Morti, con 60 mila visitatori nel 2010 e, addirittura, 100 mila nella scorsa edizione. Ma non meno fiero è parso Cannizzo del ‘mercatino etnico’, sviluppato in un ‹‹proficuo dialogo›› con la comunità senegalese cittadina; di quello del ‘contadino’ ed agricolo, e del mercato dell’antiquariato.
Gli ultimo dieci minuti sono trascorsi nel riassunto ‘cronologico’ di quanto precedentemente esposto dall’assessore.
Nel dibattito seguente l’unico tratto di distinzione tra maggioranza ed opposizioni è stato rappresentato dall’estensione del fallimento: queste ultime hanno coinvolto tutta la giunta, mentre la maggioranza si è limitata ad invitare Cannizzo ‹‹a tirare le dovute conclusioni››. L’inizio già non faceva presumere nulla di facile per l’assessore tecnico. Maurizio Mirenda (Mpa) ha esordito con il leit-motiv della serata: a quando in aula i regolamenti su chioschi, paninari, edicole, ecc. ‹‹Dobbiamo ancora per molto sentire queste liste di intenti?›› ha infine concluso Mirenda. Giovanni D’Avola (Pd) non è stato da meno: mentre state leggendo, è possibile che la registrazione della seduta la stia facendo vedere ai sindacati e alle associazioni di categoria. Insomma, secondo il consigliere, l’assessore ne ha dette di grosse (in soldoni). Perché, tra le altre cose, non avrebbe difeso quella parte importante della cittadinanza catanese, che è fatta di artigiani e commercianti. Il mercatino delle pulci? Quello agricolo? Forse possono favorire il ‘consumatore’ catanese, ma non il ‘produttore’, che in quei mercatini circolerebbe poco.
Anche per Manfredi Zammataro (LaDestra-As), l’assessore al commercio non si rende conto di quale città ci sia fuori dal ‘Palazzo’: una città che soffre, e che soffre in solitudine. La Destra ha presentato una mozione che impegna il Sindaco e l’amministrazione a mettere in atto interventi mirati a sostegno del commercio locale in città, per la valorizzazione dei centri storici, contro l’apertura di nuovi centri commerciali e contro l’invasione dei negozi cinesi. “L’economia cittadina è stata messa in ginocchio dall’apertura senza regola di centri commerciali – afferma Manfredi Zammataro – basti pensare che la città di Catania è la seconda provincia d’Europa per la presenza di centri commerciali, in relazione al rapporto fra popolazione e metri quadrati espositivi, senza dimenticare che nella maggior parte dei casi, questi centri commerciali non creano occupazione stabile dei propri dipendenti ma alimentano il precariato” Secondo Zammtataro un ulteriore problema è dato dalla proliferazione di negozi cinesi “i centri storici e le piccole città, si stanno svuotando dei negozi tradizionali per fare spazio ai negozi dei cinesi che in questi anni hanno invaso letteralmente il centro storico.
Una città ostaggio di qualcuno o qualcosa, secondo Francesca Raciti (Pd), che impedisce a Catania un decollo commerciale, come sarebbe necessario.
Ma le bordate forti sono ben altre. Perché bordate di forte valenza ‘politica’. Infatti, se per il capogruppo Pd, Saro D’Agata, ieri sera si sarebbe mostrato a tutti il fallimento della giunta ‘del senatore Stancanelli’, per il compagno di partito, Lanfranco Zappalà, si è quasi trattato di un processo a Cannizzo. Valeria Sudano, capogruppo Pid e prima firmataria delle richiesta di un consiglio straordinario sul commercio, non si è fatta mancare l’occasione di dire il faccia all’assessore quello che va dicendo da mesi in aula. Sudano sa che è quasi inusuale quello che si accinge a fare: la sua storia politica la porterebbe al rispetto della disciplina di maggioranza. E tuttavia non se ne può più: i regolamenti sono da così lungo tempo in itinere, che pare si tratti ormai di un giro del mondo. E l’assessore, frattanto, che fa? Fa innanzi tutto lo sceriffo, andando a sequestrare camion di paninari con la municipale. ‹‹È come se l’assessore Bonaccorsi – continua la Sudano – le ingiunzioni di pagamento le andasse a recapitare lui stesso››. Poi, oltre che lo sceriffo, fa pure il presidente di un’associazione di B&B, ma a corrente alternata: prima si dichiara contro la tassa di soggiorno, e poi si dimette dall‘associazione di B&B, facendosi rappresentare dal suo vice. ‹‹Insomma signor assessore – afferma infine la Sudano – tragga lei le dovute conclusioni››.
Altrettanto duro, ma ironico, l’attacco di Manlio Messina (Pdl). Era contento Messina: non vedeva in aula Cannizzo da almeno sei mesi, e per rivederlo si è dovuta attendere una seduta straordinaria. ‹‹Nulla di personale, lei lo sa. Ma credo – ha affermato Messina – che lei poteva essere un buon tecnico, e invece si è rivelato uno pessimo politico››. Ed ecco perché dieci minuti di relazione: perché altro non avrebbe avuto da dire. Poco, dunque, per Messina è stato fatto, e molto di quanto fatto lo si deve al predecessore di Cannizzo, Mario Chisari. Insomma, l’attuale responsabile al commercio si presenta in aula con una relanzioncina senza alcun dato sulla città; parla di ‘taxi amico’, e per Messina che lo ha provato, degli amici ci guardi Iddio: € 11,50 per la tratta piazza Verga – piazza Università, minuti 5 chilometri 2. Si doveva parlare del trasporto e della Sostare, in origine un’opportunità nelle mani dei commercianti, e divenuta col tempo una tassa per i residenti (Messina ricorda il suo progetto inerente proprio gli stalli blu per residenti e categorie svantaggiate)… ‹‹e lei mi parla del mercatino dei senegalesi, con tutto il rispetto…››. In effetti, pare che a Messina il mercatino vada pure bene (se non diventa l’unico scopo di un assessorato). Molto meno bene l’invasione del centro storico da parte di (presunti) magazzini cinese di vendita all’ingrosso, che in realtà venderebbero al dettaglio. ‹‹A me le palle rosse cinese non piacciono – sbotta Messina tra le ilarità di Zammataro e della Lo Presti alle sue spalle – vorrei vedere insegne con puppette ri canni di cavaddu, o palle con i colori del Catania››.

Pubblicato il 16 novembre 2011 su Catania Politica

12 novembre 2011

Ricostruire il Pdl: il caso Catania

Ricostruire il Pdl: il caso Catania 
 

di Antonio G. Pesce - Ormai il crack c’è stato. Inutile girarci attorno: il centrodestra ha perso quel predominio politico, che durava ormai da molto tempo. Predominio giusto, perché sancito dal voto, nelle differenti tornate, e da una maggioranza, la quale, nei paesi ‘normali’ tanto evocati, è sempre, alla fine della solfa, numerica. Se c’è un voto in più, c’è maggioranza. E la discussione è chiusa.
Probabilmente, chi della politica ne ha fatto un mestiere, non tanto per passione continua, quanto per incapacità di averne un altro, non si farà seppellire dagli eventi. Berlusconi non può scappare e abbandonare il Titanic, e per diversi motivi che non si possono affrontare qui. Gli altri, soprattutto gli anonimi segnaposto, si stanno già ricollocando. E a tutti i livelli. Fini, che anonimo non lo è affatto, essendo entrando nelle grazie dell’antiberlusconismo di maniera (che, guarda caso, ora in gran parte vorrebbe le elezioni, per passare subito all’incasso elettorale), ha fatto dimenticare abbastanza facilmente i suoi diciotto anni quale scudiero del Cavaliere. Ma per altri sarà ancora più facile, come è pronosticabile una certa emorragia di voti.
Insomma, Stancanelli ha scelto la poltrona più giusta. Ha fatto bene per sé, e bene per il Pdl, che dovrà ricostruire dal basso quella credibilità, innanzi tutto nazionale, che ha perso dall’alto. Ma come ricostruirla, e come ricostruirla partendo da Catania?
Se si pensa di fare leva ‘soltanto’ sulle tessere di partito, si rimane nel guado. Troppo smaliziati, ormai, per non sapere che i ‘tesserati’, in gran parte (il che non esclude altre motivazioni), sono dei ‘clientes’ da far pesare nei futuri equilibri del partito. Non bastano, dunque. Ci vuole dell’altro. E ieri, quando sorridevano i giorni al centrodestra italiano, ci si era permessi di indicare qualche strada, soprattutto al Pdl catanese. Non fummo ascoltati, perché caratteristica saliente della politica, ormai, è quella del far-da-sé, e infatti se ne vedono i risultati. D’ogni buon conto, è meglio ripetersi, e aggiungere qualche altra cosa.
Innanzi tutto, partire dall’università. Senza la zavorra di una difesa di partito di ‘tagli’ lineari, che hanno ridotto il sistema scolastico e universitario italiano alla conta degli strappi della carta igienica, si potrà rappresentare meglio il corpo studentesco, magari evitando di impelagarsi sui grandi temi (dove maggiore è stato il fallimento), e più sulle questioni direttamente tangibili: battersi per un appello d’esame in più, o su qualche servizio, non è poi così denigrante dell’alto ruolo della politica. Ovviamente, non si rimpolpa il bottino elettorale soltanto con l’università, fatta anche di fuorisede. E allora sotto con il lavoro nelle municipalità. Questo vale per tutti i partiti, ma finora pare che solo i piccoli (dall’estrema destra a quella sinistra), si siano degnati di un radicamento ‘vero’ e più capillare. Le municipalità potrebbero essere il punto di forza di un recupero, anche perché lì il confronto è tra persone e non tra ‘narrazioni’, ‘racconti’, ‘immagini’ del grande Paese che vogliamo.
Non basta. Servono altre due cose. Il Pdl pullula di associazioni, anche di un certo peso e di buona organizzazione. Bisognerebbe, allora, farsi interpreti di un ‘ripensamento’ della politica, svegliando Catania e inserendone la discussione pubblica in quella più ampia della nazione e dell’Europa. Per farlo, non basta portare in città il capobastone nazionale, il più delle volte un tizio che viene a decantare i suoi meriti e quelli del potentato di turno a cui, anch’egli, si collega. Serve un coinvolgimento ‘ideale’, che è poi quello che sta facendo la fortuna del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo. E se si vedono i frutti in un partitello, perché non dovrebbero vedersi in un grande partito? Insomma: perché essere ancora di destra, nonostante Berlusconi e Fini e le loto scellerate tattiche?
Armare la testa, armare la mano. E qui bisogna pensare alla maggioranza in Consiglio comunale. Ora, non è detto che regga, perché un punto fermo, in questi anni, è stato l’Mpa. Che – è noto – si è schierato col Terzo polo. Ma è vero che il Pdl potrebbe serrare i ranghi – se ancora ne ha. Più d’una volta, facedo la cronaca delle sedute, abbiamo dovuto notare la mancanza di numero legale. Sì, tutti i nostri consiglieri – nessun partito escluso – preferiscono far altro, che non presentarsi lì dove hanno voluto essere eletti. Ma non c’è dubbio che il Pdl potrebbe, presentandosi compatto, dettare tempi e agenda, e scusate se è poco. Invece, più d’una volta s’è ridotto ad essere rappresentato da Carmencita Santagati, da Manlio Messina e da Vincenzo Li Volsi, e qualche altro. È poco, senza scuse.
Infine, un ultimo appunto. E forse il più pesante. D’accordo: Stancanelli si ricandiderà, come del resto ha detto (seppur in politichese) nelle sue dichiarazioni in Consiglio qualche settimana fa. E si rincadideranno in molti a destra, dal Pdl a Fli, senza tenere in debito conto la storia degli ultimi 20 anni. Rimane da discuterne, però, la legittimità. Se davvero il Pdl non sarà più l’azienda berlusconiana, soprattutto quelli che avevano già provato la caserma finiana, dovranno rimettere tutto in discussione. Si devono mettere in discussione. Ad oggi, la classe ‘anziana’ del centrodestra, soprattutto la parte proveniente dall’ex Msi-An, ha responsabilità difficilmente definibili, se non per mezzo di eufemismi. Ha lasciato l’Italia senza una destra. E, soprattutto, ha lasciato l’Italia malamente (in tutti i sensi).
Forse urge, ormai, un cambio generazionale. Un sussulto di dignità dei vecchi, e un grido di arrembaggio da parte dei giovani.

Pubblicatol'11 novembre 2011 su Catania Politica

8 novembre 2011

Consiglio da post Stancanelli

Consiglio da post Stancanelli 

di Antonio G. Pesce - La scelta del ‘tronista’ Stancanelli tiene ancora banco al Consiglio comunale. Ieri sera l’assise ha affrontato la questione più volte, e infine anche il presidente, Marco Consoli, ha dovuto giustificare la propria posizione, supportata dai capigruppo della maggioranza, di permettere un intervento del primo cittadino senza replica.
All’inizio della fase delle comunicazioni Rosario D’Agata (Pd) aveva toccato ampi temi, che meritano l’apprezzamento di tutti. Come non essere d’accordo col capogruppo Pd, quando chiede un minuto di silenzio in memoria delle vittime di questa tragica settimana appena conclusasi? Come non essere d’accordo con lui, quando fa presente che la richiesta di Manlio Messina (Pdl) e Gemma Lo Presti (La Destra-As), formulata nel penultimo consiglio, di devolvere un gettone di presenza alle cure di Laura Salafia, non è divenuto ancora operativa? Come, infine, non supportarlo nella sua battaglia, quando fa notare che l’amministrazione comunale di Catania non si è costituita parte civile al relativo processo? Su queste pagine lo abbiamo scritto più di una volta: ne valeva del decoro della città e della vicinanza ad una nostra cara ‘concittadina’.
Non pacato il discorso di D’Agata, ma chi si sentirebbe di biasimarlo? Più pacato, ma altrettanto forte nei contenuti, seppur di natura squisitamente politica, quello del capogruppo Mpa, Salvo Di Salvo. Ricordiamo quando invitò l’amministrazione, or sono un bel po’ di mesi, a rendere davvero funzionanti le muncipalità e funzionali al decentramento. Come? Di Salvo detta la ricetta anche in questo consiglio: 1) discutere le deleghe da trasferire e 2) fornire le municipalità di risorse. Di Salvo fa sempre l’esempio della lampadina di un lampione, che per essere cambiata deve occuparsene un ufficio dell’amministrazione centrale. Davvero queste piccole cose non potrebbe ricevere soluzione più immediata e (forse, e su questo bisogna fare attenzione) più economica?
Di tre parti, invece, l’intervento di Manlio Messina (Pdl). Innanzi tutto, il consigliere di maggioranza ha segnalato all’amministrazione il buio in cui versa via Imperia, pericolosa non sono per la viabilità, ma anche per i ragazzi del vicino liceo Lombardo Radice che attendono il bus al buio (e senza controlli). Inoltre, Messina ha sollevato il problema dei lavavetri, segnalando le soluzioni adottate a Bologna e Firenze. Per ultimo, l’arringa contro il degrado di via Garibaldi. E qui Messina lancia strali non solo contro l’assessore al commercio, ma anche verso il comandante dei Vigili Urbani: gli agenti stazionerebbero sotto il palazzo comunale, al fine di facilitare il posteggio dei dipendenti e dei consiglieri. Insomma, sarebbero stati degradati al ruolo di ‘posteggiatori’, quando nella vicina via, fino a venticinque anni fa una delle zone più ricche del commercio cittadino, si assiste a scene tipiche di una casba: motorini e bancherelle sui marciapiedi, camion che scaricano a qualunque ora, macchine in doppia file, ecc. Al problema della legalità in città, si ricollega anche Gemma Lo Presti, ricordando come il gruppo consiliare de La Destra abbia chiesto, mesi fa, un consiglio straordinario per discutere della legalità in città, e ancora non calendarizzato.
È con l’intervento di Francesco Navarria (Sg-Misto), che gli animi si accendono. Navarria non ha gradito lo svolgimento delle comunicazioni del Sindaco. Soprattutto, ha ritenuto lesivo della dignità del Consiglio il fatto che non è stato previsto dibattito. E ha definito ‘fascista’ questo metodo e ‘complice’ chi lo ha sostenuto. La replica di Carmencita Santagati (Pdl) non si è fatta attendere: non si sente offesa ad essere definita fascista, perché il fascismo come il comunismo hanno fatto anche delle cose buone. Quali? A Catania il palazzo di Giustizia. Più interessante, però, la parte dell’intervento inerente la comunicazione del Sindaco. Secondo la Santagati, Stancanelli poteva non dare spiegazioni in aula. Se lo ha fatto, è stato proprio per rispetto all’aula. E poi, l’opposizione non ha perso nulla: il sindaco ha avuto le telecamere, ma le interviste in tv sono state appannaggio di tutti.
Valeria Sudano (Pid) non ha gradito neppure l’affermazione di Navarria, e ha fato parlare la propria storia famigliare, ben diversa, com’è risaputo, da ogni possibile influenza fascista. Tuttavia, la Sudano non si è fatta mancare l’occasione di ben più corpose considerazioni. Quali possono essere, per esempio, quelli sul piano commerciale, ancora non presentato, e dopo che a luglio è scaduto il commissariamento da parte della Regione. Quindi, ora che Catania potrebbe decidere da sé, ma pare che l’assessore ‘non sia ancora pronto’. Inoltre, attenzione ad un altro commissariamento possibile: quello sul piano regolatore. La Regione non ha rispettato il protocollo europeo Vas, e questo rischia di inficiare molti Prg già approvati. Quello catanese va rifatto, ma è bene informare la Regione che le lungaggini sono dovute a questo.
Il presidente Marco Consoli, infine, ha voluto precisare di non sentirsi ‘complice’ di alcun misfatto, rispondendo a Navarria. La questione è ben altra: Stancanelli poteva non rispondere in aula. Ma lo ha fatto, e lo ha fatto per ‘motivi personali’: ciò non prevede un dibattito. Del resto – ha aggiunto Consoli – c’è un antecedente: quando Bianco scelse tra la sindacatura e il posto di ministro degli Interni.
Un Consiglio, dunque, molto ricco di temi, dove non è mancato un affondo del consigliere Vincenzo Castelli (Misto) contro la retorica delle opposizioni e per una maggiore unità delle forze politiche.
Questa sera si continua.

Pubblicato il 8 novembre 2011 su Catania Politica

6 novembre 2011

Come uccidere la Fiera dei Morti

Come uccidere la Fiera dei Morti 

di Antonio G. Pesce - Cominciamo con un po’ di nostalgia. Quando avevo l’età dei giocattoli, la festività della commemorazione dei defunti sostituiva, quasi del tutto, il Natale. I miei mi mandavano a letto, dicendomi che nonna Agata – allora l’unica parente stretta ad aver lasciato questa valle di lacrime – sarebbe venuta a portami il regalo. Dovevo soltanto tenere gli occhietti stretti stretti, e dormire fino al mattino. Poi, lo avrei trovato da qualche parte, in casa.
Era sempre il giocattolo scelto, la sera prima, in una bancherella della fiera dei Morti, allora di stanza nel centro fieristico della Plaia. Persi la mia ‘verginità’ molto presto: una sera, quando con papà, mamma e sorella andammo a fare compere. Papà mi prese in braccio, ed io, appoggiandomi sulla sua spalla, vidi che con la sinistra teneva, ben nascosto (secondo lui) alla mia vista, il triciclo qualche istante prima adocchiato. Mi tenni stretto il segreto per anni.
A Natale, di solito, i miei genitori regalavano vestiti. Era per ‘i Morti’ che mia sorella ed io avevamo i giocattoli. Il 2 novembre era una festa, e per un giorno l’anno mia nonna non restava nel chiuso di quella lapide. Mi veniva a cercare, mi pensava – pensava a me, tra i nipoti l’unico che di lei non avesse un ricordo.
Ora tutto va a rotoli. Le tradizione pagane di un pugno di caproni sassoni invadono la mente dei bambini e dei loro idioti genitori. Lo dico prima: educare è difficile. Per questo, quando avrò figli, spero di usare il morbido metodo dell’olio ‘a cannaletta’, per chi tra i miei putti oserà pararmisi innanzi col cappello da maghetto o da streghetta. Olio, sì, olio – e che non vadano a disturbare i vicini, chiedendo loro dolcetti come se non ne avessero a casa: piuttosto, che concimino le loro aiuole.
Spero, tuttavia, che frattanto il sindaco Stancanelli mi avrà dato una mano, rilanciando la tradizionale ‘Fiera dei Morti’, che sembra ormai morta (e mi scuso per la ridicola battuta). Qualcosa di meglio si poteva fare. Non è che uno ce l’abbia con Stancanelli, e gli voglia sempre rompere le uova nel paniere. Però, secondo lui è sensata l’operazione che si è fatta? Ecco, ricapitoliamo. Nel 2009 la fiera è stata allestita nel parcheggio di via Santa Sofia. Come la fai, ci sono sempre problemi, e questo è ovvio. Ma lì era vicina la tangenziale, con la quale avevi collegata tutta la provincia, ad esclusione dei paesi del Calatino.
Nel 2010 un’altra novità: il parcheggio di Fontanarossa. Entrata sulla stessa bretella che collega l’asse dei servizi all’omonimo aeroporto, affollatissimo nei giorni di festa, perché più di tre quarti dei siciliani fuori sede ritorna a casa, soprattutto se vi è di mezzo un ‘ponte’. Non solo. La zona è di quelle che offrono molti comfort: uno tra i tanti, quello di poterla raggiungere in scialuppa, non appena dal cielo si riversano un paio di gocce. Però il catanese, seppur abitante sul mare, pare non gradire molto questa concorrenza del villaggio di Santa Maria Goretti a Venezia.
Ora, io lo so che il sindaco è stato molto affaccendato, dovendo scegliere se restare nei piani alti della politica, dove ormai pare stia crollando la maggioranza, o se onorare ancora il glorioso impegno sul territorio. Guarda che fortuna: ha scelto Catania! Però è troppo chiedergli di spostare la fiera, facendo così due cose buone – evitare che i catanesi (provincia compresa) perdano quel barlume di tradizione che ancora rimane, e i siciliani l’aereo?
Non deve essere difficile capirne la logica, soprattutto per uno come lui, che ha saputo dirimere l’annosa questione dei Palazzi che se lo contendevano.

Pubblicato il 3 novembre 2011 su Catania  Politica

28 ottobre 2011

Stancanelli ambiguo: ieri fumata nera, oggi sapremo

Stancanelli ambiguo: ieri fumata nera, oggi sapremo 
di Antonio G. Pesce - Giovanni Grillo si illudeva ieri, quando nell’editoriale, a proposito della riunione tra maggioranza e sindaco, affermava che, alla fine, ne avremmo saputo di più. La riunione c’è stata, ieri sera dalle 18 alle 20, ma in realtà neppure i consiglieri di maggioranza c’hanno capito nulla. Se ne sono tornati più confusi che persuasi, essendosi trovati davanti uno Stancanelli che le decisioni, più che averle prese, pareva volesse averle consigliate. Li ha ascoltati paternamente, come colui che, stretto tra la Scilla del cuore e la Cariddi della ragione (in questo caso, della ragion politica), non volesse far torto a nessuno, spezzando con equità il pane alla mensa della politica.
Di una cosa, però, si può essere sicuri: i nodi vengono al pettine. Prima o poi. E vengono nel momento più sbagliato, quando ogni strada pare portare in un vicolo cieco. Si dice che quella che vorrebbe percorrere il Sindaco sia, ancora, quella che conduce a Palazzo degli Elefanti (proprio ora, che il nuovo piano viario del centro gli fa godere piazza Duomo!). E si dice che ci si siano messi di mezzo il gatto e la volpe del Pdl, alias Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, per condurre il nostro povero Pinocchio nella strada della perdizione. La maggioranza, a livello nazionale, rischia di sciogliersi come neppure la poca neve di qualche settimana fa sul Mongibello, dopo le ultime folate di scirocco. Ed ecco perché ha bisogno dell’intrepido sindaco catanese, il quale, suo malgrado, potrebbe anche sacrificarsi.
Non dovrebbe essergli però troppo gravoso. Uno ci pensa e fa mente locale. A Catania circolano i nomi di possibili candidati a sindaco per il centrodestra: i ‘rottamatori’ non ci sono solo nel Pd. È, inoltre, una piazza difficile la nostra città, nella quale il povero avvocato di Regalbuto è stato paracadutato nottetempo. Infine, ti accomodi sullo scanno di Palazzo Madama, che per diversi aspetti (è necessario elencarli tutti e specificarne la natura?) è assai più comodo di quello di sindaco.
Certo, il Pdl andrebbe alle urne in una grande città in cui, bene o male, la maggioranza regge e fa qualcosa, rischiando – perché ogni volta che si va ad elezioni si rischia qualcosa – di perdere tutto, per difendere con gli ultimi giapponesi la guarnigione governativa. Va be’, vuol dire che ci credono davvero che il governo arriverà a fine mandato.
Però, è bene che Stancanelli non commetta un grosso errore. Quel grande errore commesso anni addietro da Enzo Bianco, poi da Scapagnini. E anche da Walter Zenga: preferire Catania (anche quella calcistica) ad altro. I catanesi, gente tosta, non perdono. Non è un caso che Musumeci faccia di tutto per essere presente in Consiglio, nonostante l’incarico di sottosegretario.
Non commetta questo errore Stancanelli. Anche perché le prossime politiche potrebbero giocarsi sul filo delle preferenze.

Pubblicato il 28 ottobre 2011 su Catania Politica

Consiglio, norme e polemiche

Consiglio, norme e polemiche
di Antonio G. Pesce - Intervento pesante di Manlio Messina al Consiglio comunale di ieri sera. E non è stato l’unico. Tu ti aspetti una seduta tranquilla (alquanto), e invece capitano due cose inattese.
La prima. L’assessore Bonaccorsi e il ragionerie generale chiedono la sospensione dell’atto deliberativo inerente la gara per l’affidamento della gestione in concessione del servizio di riscossione volontaria dell’entrata TARSU, della riscossione coattiva delle Entrate Tributarie ed extra Tributarie: TARSU, ICI, TOSAP/COSAP, ecc. Il motivo? L’interpretazione di una normativa non molto chiara. Solo che, nei mesi scorsi, proprio l’amministrazione aveva sollecitato una pronta approvazione.
Rosario D’Agata, capogruppo Pd, non si fa sfuggire la cosa, sottolineando che la normativa è del luglio scorso: ci vogliono 4 mesi per trovare questo (si direbbe in termini informativi) ‘bug’ interpretativo? Tra l’altro, l’amministrazione non ritira, ma vorrebbe sospendere.
Nella sua replica, dopo che anche Manfredi Zammataro, a nome de La Destra-As, si è detto sconcertato, Bonaccorsi la dice tutta: i primi in Italia a sollevare il dubbio siamo stati noi di Catania. Dopo Pascal, anche Cartesio dunque! Ma ne nasce un battibecco con D’Agata: l’assessore, nel suo intervento, rifila una staffilata al capogruppo Pd, dicendo che un ‘avvocato’ dovrebbe sapere che i dubbi interpretativi si sollevano col tempo. D’Agata è, appunto, avvocato e, punto sul vivo, prende la parola è afferma: ‹‹Vorrei ricordare al signor assessore che qui io sono in veste di consigliere››. Le coronarie del ciceroniano oppositore reggono. Un po’ meno le gambe del Tremonti nostrano, che si lascia andare sullo scanno con un’aria sconsolata.
Ma è sulle comunicazioni che il bello ha da venire. Zammataro si congratula con le forze dell’ordine e con la magistratura per l’arresto del boss Arena, e rilancia l’idea, avanzata ormai da tempo, di un osservatorio della legalità, per mettere in ‹‹rete tutte le associazioni antiracket e antimafia››. D’Agata, appena il tempo di riprendere fiato, parte subito all’attacco: nella seduta del 14 settembre aveva già parlato dei problemi preventivabili del villaggio S.M. Goretti con le prime piogge. E che si è fatto? Nulla. Bonaccorsi, nella replica a nome dell’amministrazione, gliene darà atto di averlo detto (ché poi Bonaccorsi è un bravo ragazzo!), ma, secondo gli uffici e l’assessorato competente, si è trattato di un nubifragio di enormi proporzioni, non facilmente gestibile comunque.
Arriva il turno di Manlio Messina (Pdl). Due tipi di comunicazione: amministrativo, e quello che egli definisce ‘istituzionale’. Partiamo col primo tipo. Intanto, la riduzione dei parcheggi in piazza Verga, per far largo a posti ‹‹riservati››. ‹‹E poi dicono che la ‘casta’ siamo noi consiglieri. Se ‘casta’ non ci deve essere, non ci deve essere per nessuno››. Poi, una velina che già circolava (e noi siamo stati gli unici a scrivere, seppure a fiaba): durante i mondiali di scherma, il pranzo offerto dalla città ai partecipanti viene spostato all’ultimo istante. Il luogo – villa Manganelli – nel quale si doveva tenere viene chiuso, dopo ispezione da parte comunale, per mancanza delle licenze idonee da parte del ristoratore. Che – a detta del consigliere Messina – fino a qualche giorno prima era socio in affari con il presunto mandante ‘assessoriale’ dell’ispezione.
Ci si può immaginare che accade! Polemiche a non finire, che avranno di certo un seguito. L’altro argomento, dopo questo, che unisce l’intera assise, è la proposta, avanzata dallo stesso Messina, di ‘tassare’ i consiglieri comunali per contribuire alle spese sostenute da Laura Salafica, che da più di un anno è costretta a sostenere gravose cure riabilitative fuori regione. L’iniziativa avrà il supporto di tutti, dal Pd a La Destra. Piace sottolineare quello che Messina ha aggiunto: ‹‹Laura ha dichiarato di essere stata abbandonata. Io stesso – me ne assumo la responsabilità – l’ho dimenticata. È venuto il momento di riparare, affinché questa figlia della nostra città non si senta più sola››.
Parole di grande onestà, alle quali si associano tutti i partiti. D’Agata, a nome del Pd, dichiara di essere disponibile a collaborare nel miglior modo possibile. Invitando – D’Agata non dimentica: benissimo, lo avevamo fatto notare proprio noi di Catania Politica – l’amministrazione a costituirsi (cosa che ancora non è avvenuta) parte civile nel relativo processo.
Gemma Lo Presti (La Destra) chiede che venga devoluto il prossimo gettone di presenza. Le donne! Quante ne sanno le donne! C’è un motivo perché proprio la prossima seduta – e così vi diamo un’anticipazione, cari lettori: venerdì prossimo, 28 c.m, il Consiglio si radunerà per ascoltare le dichiarazioni del sindaco Raffaele Stancanelli. Cosa rara di per sé, figuriamoci dopo la sentenza che gli imporrebbe di scegliere tra la sindacatura e lo scanno di Palazzo Madama. ‹‹Si presume ci sia più gente›› afferma la ‘brava massaia’ Lo Presti.

Pubblicato il 27 ottobre 2011 su Catania Politica 

Consiglio "sociale" a Catania

Consiglio “sociale”
di Antonio G. Pesce – Ieri sera in Consiglio comunale l’assessore alla famiglia e alle politiche sociale, il prof. Carlo Pennisi, ha descritto il progetto di riordino del servizi sociali catanesi. Davanti ad un consesso non molto numeroso – hai voglia ad aspettarlo! – ma comunque assai attento, Pennisi ha ricordato, innanzi tutto, lo stato dell’assessorato al momento dell’incarico, quando ‹‹la direzione mostrava parecchie difficoltà sotto molteplici punti di vista››: dall’organizzazione del lavoro ai servizi offerti, dal coordinamento dei vari centri territoriali alle diverse responsabilità. Duecentoventi dipendenti (metà dei quali dislocati sul territorio) e fondi complessivi per quasi cinquanta milioni di euro: i numeri, insomma, di una enorme macchina burocratica, non sempre efficiente, e assai difficile da gestire.
‹‹Ho accettato l’incarico offertomi dal sindaco per senso civico›› ha dichiarato Pennisi, ed ha poi precisato che il modello di riordino dei servizi dovrà seguire le peculiarità del tessuto sociale catanese e le specifiche esigenze di bilancio dell’ente: dunque non un modello astratto, ma tagliato su misura della realtà cittadina. Questo al fine di raggiungere quattro obiettivi. Innanzi tutto, rendere i servizi più vicini alla famiglia, ottimizzando le risorse in un contesto nel quale vanno decrescendo, mentre aumentano i bisogni. È a questo punto che Pennisi traccia la linea che l’amministrazione vorrebbe seguire: un servizio alla persona, senza che si trasformi in ‹‹dote›› per chi lo riceve e per l’ente che lo eroga. Valorizzare il ruolo dei privati e semplificare e unificare i procedimenti, infine, gli altri obiettivi da perseguire.
Un punto, però, non può passare inosservato: Pennisi afferma che l’amministrazione può fare tanto sì, per valorizzare quello che fa (e deve fare) la Regione.
‹‹Bisogna potenziare il governo dei servizi per uscire dalla frammentarietà degli inteventi – ha concluso Pennisi – per approntare ad un modello unitario di programmazione, che si rifletta su ciascuna area dei servizi e sia da orientamento per la loro territorializzazione››.
A voler leggere tra le righe della lunghissima relazione, si potrebbe avere l’impressione che, più volte, l’assessore abbia tirato in ballo la Regione, quasi a dire che, in fin dei conti, quello che l’ente comunale fa è quel che può fare con i fondi che arrivano
Ma sarà, di certo, un’impressione.


Pubblicato il 25 ottobre 2011 su Catania Politica

Due domande sul caso di Laura Salafia

Due domande… 
di Antonio G. Pesce – Ci sono due cose, emerse dall’intervista a Laura Salafia, che mi sono del tutto inspiegabili. Non si tratta del suo atteggiamento verso chi l’ha ridotta in quello stato, perché, paradossalmente, questa è la cosa più comprensibile.
Immaginiamo di essere al bar con gli amici. Chi ha frequentato l’università, sa bene quale respiro di sollievo dopo un esame finito. Stai parlando del più e del meno, quando ad un tratto non ci capisci più nulla: sei a terra, il fiato corto, in una pozza di sangue. Passano i mesi, e ci capisci sempre meno. Poi, hai un barlume di lucidità: la tua vita non sarà più la stessa. Non perché potresti non essere più autosufficiente come prima – potresti anche ritornarlo ad essere. Il problema è che l’animo di un essere umano è più fragile di quanto non si creda: noi proprio non ce la facciamo ad accettare l’assurdo. E qui la cosa è ancor più assurda: un tizio che scorazza in moto sparando, e tra tanti che potevano restare a terra, proprio tu…
Alla fine, non tutti trovano il bandolo della matassa che, essendo nascosto ben in profondità, non è neppure tanto facile da scovare. Però Laura ce l’ha fatta, ha capito quale sia la sua condizione, e sta lottando per superarla. Tanto di cappello, signori!
Rimangono, però, due domande senza risposta. Laura dice di voler tornare a Catania, nella sua Sicilia. Dice di amare Catania, questa città che i tanti fighettari, col Suv del paparino, snobbano e denigrano per sentirsi ‘cool’ agli occhi del resto del mondo. Questa Catania ridotta ad essere una gallina, e peraltro ormai spennata, da chi l’ha considerata una diligenza da assaltare. C’è chi è fuggito, pur avendo avuto tutto: fuggito via, verso lidi più remunerativi. Chi, invece, non ha avuto nulla, e quel poco che aveva gli è stato tolto, vuole tornare per combattere qui la propria battaglia. E allora ti chiedi: perché i più fieri di questo tricolore, di questa bella isola, di questa incredibile città sono, innanzi tutto, coloro che avrebbero qualche buona ragione per esserne schifati? Perché il ‘patriota’ è il disoccupato, il disilluso, addirittura la vittima?
Un’altra domanda. Laura ha lanciato il suo grido. Se non fosse stato per le persone che la amano… fermiamoci qui! Ora, ritornando in questa terra, ha bisogno di tutto: una casa adeguata, un’assistenza adeguata. In molti si sono detti disponibile ad aiutarla: tutta gente che conta, tra l’altro. Ma la domanda è: perché devono muoversi le telecamere, perché ci si ricordi che siamo tutti ‘comunità’?
Voi, cari lettori, ve la prendereste con le istituzioni, i politici, i potenti dell’Isola, ecc. Sì, ci può stare. Ma io voglio essere più radicale: dov’è stata quella società civile – dove ‘siamo stati’ tutti noi in questo tempo? – noi che ci siamo indignati, che ci siamo dati appuntamento per manifestare, che abbiamo organizzato la nostra rabbia.
Noi – noi tutti – avevamo altro di cui ‘indignarci’.
E’ nato un comitato per sostenere “Laura Salafia”, promotore dell’iniziativa l’avvocato Carmelo Peluso. Laura tornera’ a Catania per Natale. Fino ad oggi il peso per assistere e curare Laura grava esclusivamente sulle spalle dei genitori che in 15 mesi non l’hanno mai lasciata sola. Dal giorno della sparatoria, è rimasta paralizzata, non muove nè gambe nè braccia. Laura ha bisogno di molte cure. Tutti insieme, possiamo davvero aiutare Laura, versando anche un piccolo contributo sul conto corrente: – IT 85F01030 16918 00000 1267 714 – Salafia Laura presso Monte Paschi di Siena.


Pubblicato il 24 ottobre 2011 su Catania Politica

24 ottobre 2011

Abolire le province. Ma come?

Abolire le province. Ma come? 

di Antonio G. Pesce - Le province si avviano ad essere abolite. Almeno in Sicilia, e secondo un disegno di legge voluto dalla giunta regionale. La cosa, com’era preventivabile, sta suscitando vaste polemiche, anche perché la lotta politica nazionale non poteva non lambire le nostre coste – anzi, proprio nelle nostre ha conosciute alcune sue fasi, e tre le più cruente.
Non si è contro l’abolizione delle province o a favore: oggi si pensa a colui che ne sarebbe artefice, tal Raffaele Lombardo, alle sue ragioni, alle sue motivazioni, ai suoi meriti e demeriti. Ma ci può essere anche un altro approccio: vedere se la cosa funziona, e a quali condizioni.
Innanzi tutto, però, bisogna rispondere ad alcune obiezioni. Solitamente, coloro che sono contrari ai tagli degli organi rappresentativi (sia qualitativamente, come far scomparire un’istituzione – in questo caso quella provinciale; sia quantitativamente, come diminuire gli eletti di ogni ordine e grado), temono che, con la buona ragione del risparmio, si mini la rappresentatività e, con essa, la partecipazione all’istituto democratico. Ora, chi afferma questo ha delle buone ragioni, e non vi è dubbio che è un aspetto da tenere in conto. Tuttavia, siccome la politica non scopre leggi fisiche valevoli su tutta la sfera del reale, ma deve trovare soluzioni ai tanti problemi che nascono continuamente dalla vita consociata, un discorso come quello precedente ha il limite di non vedere quale sia la condizione attuale alla quale bisogna dare risposta.
La democrazia avrà tanti meriti, ma rischia di aver il demerito di renderci più stupidi, se la si fa diventare un valore, alla stregua di quelli inalienabili della persona umana, e non la si guarda come un istituto del tutto umano. Con pregi, dunque, e con profondi difetti. E il difetto di ogni regime – quale che ne sia la natura – è che il potere finisce per essere un campo gravitazionale in cui rientra tutto ciò che si muove e respira, e che possa trasformarsi in consenso. A maggior ragione in democrazia, e soprattutto nella malata (ma sempre meglio di niente) democrazia italiana.
Ora, se il disegno di legge, proposto dalla Giunta regionale, ha un limite, è quello di non sfoltire ancor più, lasciando che le fronde della macchina pachidermica della Regione continuino a stormire. L’abolizione delle province è un buon inizio, ma, da quel che pare, non si dovrebbe andare oltre. E questo no: non possiamo permettercelo.
Inoltre, la consociazione dei comuni potrebbe avere effetti deleteri. Basti un esempio di consociazione pregressa: i famosi Ato, che non spiccano per la loro efficienza, né tanto meno per la chiarezza del proprio funzionamento.
Bisogna, dunque, fare attenzione. L’idea non è malaccia, anzi. È come la renderemo qualcosa di più di un casto e bel proposito che si deve temere. Possiamo – è vero – dare campo alle aree metropolitane, ma in Sicilia significherebbe soltanto coinvolgere le province di Catania e Palermo – a stento quella di Messina. Non si risolverebbe molto. La soluzione è, invece, quella dell’abolizione di tutte le province, evitando però che quel che buttiamo dalla porta, ci entri poi di nuovo dalla finestra.

Pubblicato il 19 ottobre 2011 su Catania Politica

19 ottobre 2011

La Storia è una lavandaia


La Storia umana è una lavandaia a servizio di Dio. Nel torrente degli eventi lava i pannicelli sporchi dei figli discoli del Signore. Tutti siamo figli discoli. Tutti sporchiamo il grembiulino della scuola o il vestitino della domenica, con macchie che si vedono – i più rozzi e i meno fortunati; con macchie che non si vedono – gli sventurati che non trovano maschere con cui coprirsi.
Nessuno entrerà al banchetto regale se non mondato. Si inizia da qui. La Storia è una lavandaia, a volte un po’ sguaiata, ma che ben sa fare il proprio mestiere. Non ci sono panni che essa non lavi: quelli dei piccoli e quelli dei grandi; quelli dei ricchi e quelli dei poveri; quelli dei più buoni e quelli dei più cattivi. Tutti siamo, a seconda delle circostanze, più buoni di alcuni e più cattivi di altri. Nessuno sfugge. E non ci sono macchie che non vengano lavate. I novelli Trasimaco, che per il loro bieco utile sacrificano le speranze altrui, macellai che scannano e non si curano di insozzarsi col sangue del più debole, temano il giorno il cui verranno spogliati davanti al torrente e lavati di tutto capo.
È solo questione di tempo: ciascuno di noi deve rendere conto del proprio vestito. Il Purgatorio inizia appena comincia la vita. La Storia ne è soltanto l’anticamera.

17 ottobre 2011

La crisi del liberalismo e l'Occidente scristianizzato

Rec. a Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica, Milano, Mondadori, 2008, pp. 196.

 

La storia non ci sta risparmiando interrogativi. Ieri, interni alle mura di quel che fu il presunto (e a volte presuntuoso) «Mondo libero», e dal 2001 ad oggi a livello planetario. Perfino il placido Mare Nostrum è tornato a ribollire, mentre l'Unione Europea si mostra sempre più indecisa (quando non addirittura sfacciatamente impreparata) nell'affrontare sfide che, nell'affermazione di uno Stato unitario, sono di capitale importanza.
Torna utile, allora, rileggere i tre corposi capitoli, preceduti da una lettera di papa Benedetto XVI, che Marcello Pera ha mandato in stampa qualche anno fa col titolo di Perché dobbiamo dirci cristiani. Lavoro che, riprendendo Croce (anche se marginalmente), si oppone all'apostasia del cristianesimo di cui ormai ci si farebbe vanto in Europa. Un'opposizione che, partendo dalla condizione «del laico e liberale che si rivolge al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza [vuole] riaffermare una fede (altra espressione appropriata non c'è) in valori e princìpi che caratterizzano la nostra civiltà» (pp. 4-5).
L'analisi prende avvio dalla questione su cosa sia il "liberalismo", il quale, peraltro, non godrebbe di buona salute (difficile dar torto a Pera): se mai è esistita una stagione in cui, e nella pratica e nella teoria, il liberalismo abbia mostrato una sola sfaccettatura, questa non è proprio la nostra. E tuttavia, nonostante quella che Pera definisce una vera e propria «crisi», i liberali di ogni epoca e specie si sono trovati a concordare sul fatto che 1) gli uomini sono liberi e uguali per natura, e che 2) uguaglianza e libertà sono antecedenti all'uomo e alle strutture sociali nate per garantirle.
Proprio su quest'ultimo punto la tesi di Pera sarebbe da discutere. Dal liberalismo di Croce all'interpretazione di Gentile, maturata all'interno di una revisione del liberalismo che si imponeva in Italia e non solo, e non escludendo il pensiero di Luigi Sturzo, l'aspetto comunitario ha una sua rilevanza. La polis è il luogo dove si danno le garanzie della persona, perché la persona, innanzi tutto, non è una monade. Ovviamente, non è neppure totalmente aperta alla sintesi con l'altro, ma senza di questi sarebbe mero individuo, e l'individuo imporrebbe di spiegare la nascita dello spazio intersoggettivo.
Ciò non significa, tuttavia, che la tesi esposta da Pera non sia ben giustificata. Significa, invece, che proprio partendo da una interpretazione più ampia del liberalismo, lo scopo finale sarebbe stato raggiunto con più facilità.
Ad ogni modo, secondo l'ex presidente del Senato italiano la storia si è mostrata alquanto restia a confermare quest'ottimismo di fondo, e la religione non solo non si è piegata ai costrutti politici, ma a volte è stata anche motivo di divisione (ovviamente, verrebbe da dire: proprio perché il liberalismo, così ricostruito, non tiene conto della dimensione comunitaria).
A far quadrare i conti, dunque, ci si sono messi -- possiamo dire -- contabili di tutto rispetto come Rawls con la sua «autosufficienza del liberalismo»; Habermas col suo «patriottismo costituzionale», e Rorty che, tanto per non indugiare troppo, ha proposto di eliminare uno degli addendi, cioè la religione, dal libro mastro della sfera pubblica.
Passando in rassegna le varie «equazioni» -- da quella negativa, secondo la quale lo stato liberale è laico, nel senso che non è giustificato secondo credenze religiose; a quella per cui lo stato liberale includerebbe la religione nella sfera privata (si chiede Pera: chi è autorizzato a tracciare il confine tra pubblico e privato? Si può chiedere di dismettere la fede come si fa con un abito? Ma ci sarebbe anche da chiedersi: come si può dicotomizzare la vita del concreto individuo, che va a messa e va poi a votare?) -- giunge all'«equazione laica» che vuole lo Stato fondato su termini, se non opposti, quanto meno diversi dalla fede: lo Stato liberale così, pur di non abbracciare la fede dei Padri del liberalismo, finisce per sposare la religione della laicità, che non è proprio quello che volevano Locke, Kant, Jefferson.
Eppure questa laicità, che dovrebbe essere il collante minimo dell'Unione e sulla base della quale si sono scritti i trattati e le bozze della costituzione europea, non infiamma i cuori degli europei: Pera traccia i vari fallimenti di questo cammino nel secondo capitolo. Quindi, l'analisi continua affermando che non solo nessuno sa chi siano gli europei, ma neppure come si faccia l'Europa. È quello che nel libro viene definito come paradosso dell'identità europea: «poiché i "princìpi" e i "valori indivisibili e universali" di cui parla la Carta trascendono, per definizione, qualunque collocazione storico-geografica, e poiché i diritti che discendono da tali princìpi e valori si riferiscono agli individui in quanto individui, cioè indipendentemente dal loro essere cittadini di questo o quello Stato, ne consegue che la Carta europea, in quanto basata su princìpi, valori e diritti universali, è una carta cosmopolita, cioè ha come referente l'intera umanità» (p. 77).
Il problema nasce, però, non dal fatto che manchino idee concrete sull'identità, ma che ne manchino su come giustificarne una piuttosto che un'altra: è stato abolito, in Europa, il comparativo di maggioranza: «migliore di... » non si può più dire, è politically uncorrect. Contro di esso hanno lanciato i loro strali il relativismo ormai dominante e il multiculturalismo, che ne è la versione pratica e sociale. Non possiamo giudicare, perché ogni cosa ha la sua cornice, e si giustifica solo all'interno di questa. Siamo passati, nota Pera, dall'universalismo kantiano al relativismo culturale (ma non si tratta forse di storicismo?) dei vari Hegel, Harmann, Jacobi, Heder, per finire -- meglio, per schiantarci contro il soggettivismo, lo scetticismo, il nichilismo e il decostruzionismo di stile nicciano. Ma se due dottrine non si possono comparare, non si può dire neppure che siano uguali. E allora in base a cosa scegliamo? In base a quello che più ci aggrada: il resto del mondo deve accodarsi. E così l'universalismo individuale di Kant, che faceva nascere la legge universale dalla persona concreta, è stato prima soppiantato dall'individualismo utilitarista di Stuart Mill, e questo, a sua volta, dal prometeico andazzo dei nostri giorni, che si esprime secondo i suoi comandamenti: «a) Non esiste alcuna legge morale universale, né religiosa né laica. b) Nel mondo liberale (occidentale), vale il principio del rispetto delle libere scelte di valore degli individui», i quali però li fanno valere anche nella sfera pubblica, perché è allo Stato -- uno Stato divenuto sempre più paternalistico -- che chiedono il riconoscimento dei loro orientamenti sessuali o della loro concezione circa la vita e la morte. A questo punto verrebbe da opporre la questione prima esposta: un liberalismo più comunitario, non sarebbe una risposta più fondata? Se il fondamento è rappresentato dalla libertà individuale, e non da quella che ci permettiamo di definire personale, come opporre poi validi argomenti a chi vede lo Stato come entità distinta da sé e chiede all'altro di accomodarsi alle sue inclinazioni?
Per Pera il multiculturalismo non è una risposta alle sfide dell'attuale società globalizzata, e tanto meno un modo per integrare meglio le altre culture nella nostra, soprattutto quella islamica. L'Europa che ha concesso più di quanto fosse lecito concedere ad usi e costumi non autoctoni, non li ha menomamente integrati, anzi. Londra è piena di ghetti, le banlieue francesi sono andate in fiamme, e nei Paesi Bassi ci sono quartieri dove si è tentato di introdurre la legge islamica (sharia): non abbiamo creato una sola comunità, ma tante piccole comunità, che prima o poi entrano in conflitto. «Concedere o non concedere diritti di gruppo dipende dalla qualità dei diritti richiesti, dalla loro conformità ai diritti fondamentali garantiti ai cittadini nella società ampia. Se i gruppi rispettano i diritti fondamentali, quei costumi sono ammessi, se no sono banditi. Nella società liberale, primari sono gli individui, non la società [...] per i liberali, vale la regola che violare i diritti fondamentali è sempre una violazione sull'uomo, mentre violare diritti di gruppo è talvolta una promozione dell'uomo» (p. 117).
Ma se la tradizione europea è stata forgiata dal cristianesimo, accettare questa tradizione significa convertirsi? «La risposta è: una conversione religiosa no, una conversione civile sì» (p. 121).
Qui sta il grande merito, ma anche la profonda contraddizione dell'analisi di Pera. Con buona pace di chi ha bollato questo argomentare come «ateismo devoto», non possiamo rimescolare le carte della nostra partita: nella formazione di ogni individuo, nel suo farsi persona, nel suo universalizzarsi sempre più, entra in gioco -- in un gioco dialettico -- l'esperienza di milioni di uomini, vissuti prima di ciascuno di noi, che si è fatta istituzione, diritto, filosofia, educazione. Sia o no Gesù di Nazareth il «Figlio del Dio vivente», la sua esperienza storica e la sua dottrina hanno influito enormemente su uno spazio geografico ben preciso definito Europa. Uno spazio in cui milioni di uomini hanno interagito, scambiandosi vicendevolmente la loro esperienza di vita.
Non sappiamo cosa saremmo stati senza cristianesimo, e forse, come già insegnava Ricoeur, non ha neppure senso chiederselo. Chi accetta la nostra storia non si converte al suo motore, ma si inserisce nel suo flusso. «Sta a lui l'onore di tradurre i contenuti di quella Carta [in questo caso, quella di Nizza del 2000, ma ciò vale per qualsiasi altra carta costituzionale] nel vocabolario della propria cultura di origine, o questa in quella». Traduzione, dunque. Eppure, quando Pera ha affrontato la «clausola condizionale» di Rawls e la «riserva istituzionale di traduzione» di Habermas, due modi di ammorbidire «l'equazione laica» permettendo di tradurre in linguaggio razionale le proposte della fede (p. 29), non è parso assai convinto di questa possibilità, e ciò malgrado il cristianesimo -- il cattolicesimo in modo particolare -- si presti a questa soluzione.
Dall'opera appare chiaro, seppur l'autore non giunga ad esplicitare questa tesi, che contro la religione dei «Padri» è in corso una feroce guerra, il cui fine non è quello di negare ai cristiani il loro diritto di essere «chiesa»¸ né a quella di Roma di avere un proprio corpo dottrinale. Questo sarebbe, in fin dei conti, un bieco anticlericalismo già sperimentato, e già superato nei settori più smaliziati della cultura cosiddetta «alta».
La vera guerra la si muove contro la pretesa della «Chiesa» di dire la verità in campo politico come economico, antropologico come metafisico. Una pretesa che, se fosse avanzata secondo i pur legittimi schemi del fideismo, non susciterebbe tanto clamore né la mole di pubblicazioni apologetiche di un ateismo peraltro a volte grossolano. È che il secolarismo dogmatico si sente minacciato proprio in quella conquista che dà la cifra della sua esperienza: non potendo annichilire il Fondamento, ha preferito svuotare di senso l'esperienza che l'uomo ne fa. Non è un caso che la «morte di Dio» è un «evento» che giunge a coscienza solo dopo l' «annuncio» del profeta Zarathustra. La ragione umana, in questo caso, è usata nella sua polarità negativa: non costruisce, bensì de-costruisce. E, nel de-costruire, cancella la fitta rete di legami intersoggettivi da essa già creati. Eppure, nessun «annuncio», quale che ne sia il contenuto, anche il più de-costruttivo, può di fatto giungere ad annientare le strutture semantiche che ne garantiscano la comprensibilità e, in ultima analisi, lo spazio della sua accoglienza. Su questa contraddizione interna ha giocato Joseph Ratzinger, da pontefice della Chiesa, in due suoi contestatissimi, quanto efficaci discorsi: quello di Ratisbona, il 12 settembre del 2006, e quello -- mai potuto pronunciare -- della Sapienza, il 16 gennaio del 2008.
Pera ha piena coscienza delle profonde contraddizioni vissute oggi dall'Occidente, ed ha anche chiare alcuni soluzioni. Ma non tutto risulta ben fondato: p. e., lo spazio comunitario reclamato dalle culture immigrate non può essere considerato, in via di principio, meno importante di quello in cui si innesta. Non esistono, infine, culture e spazi storico-geografici, ma uomini in carne ed ossa che interagiscono. Davanti a tutto questo, non possiamo rivendicare la libertà dell'individuo in un capitolo, e passare allo scontro di spazi nel secondo. E nel terzo non possiamo rivalutare quei ponti della ragione, che nel primo avevamo considerato meno importanti di una mitologica (se non ben analizzata) dimensione storico-culturale data.
Se, poi, l'assunto è che il Cristianesimo ha costruito il nostro mondo perché la sua «rivoluzione» (giuste le parole di Croce) ha condotto alla libertà individuale, mentre nessun'altra religione potrà mai farlo (e ben che meno l'Islam), ciò non appare ben giustificato. Nessuno potrebbe escludere, allora, che le derive di oggi non siano conseguenze (per quanto assurde) di quella «rivoluzione cristiana», e dunque semi piantati già al delimitarsi dell'orto, che ora appare appestato dalla gramigna. Né, una volta trasformata la dimensione individuale in sociale, si vede perché quella altrui non possa godere del medesimo riconoscimento.
Sono, questi, nodi che Pera non può sciogliere, perché mentre ha ben capito che il problema è rappresentato da un certo liberalismo, dall'altro non riesce completamente ad affrancarsi dalla propria formazione. Che non gli fa vedere, innanzi tutto, un altro liberalismo. E, inoltre, non gli fa trovare l'unico perno su cui avrebbe potuto poggiare molte delle sue pur condivisibili intuizioni: la persona.

 

Antonio Giovanni Pesce. «Recensione a Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 13 (2011) [inserito il 20 luglio 2011], disponibile su World Wide Web: , [16 B], ISSN 1128-5478.