"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

31 maggio 2010

IL DUCE DI ARCORE

di Antonio G. Pesce- Pieno stato confusionale. Non sapere quanti soldi si abbiano in tasca: pensavamo di aver toccato il fondo. Ora scopriamo che non sappiamo più neppure chi siamo. Lui e l’altro si sono messi a fare citazioni dotte. Che in Italia, in linea di massima, nessuno capisce. Siamo diventati un laurificio a cielo aperto e lo dicono le statistiche, inflessibili nel relegarci nel fondo di ogni graduatoria internazionale. Quindi, il più delle volte, scandalo o stupore davanti a citazioni e paragoni assai arditi. E quando il presidente del consiglio cita Mussolini e il ministro dell’economia interroga l’anima di Karl Marx per sapere che ne pensi del suo operato, il più che succede è che Caifa si stracci le vesti nel tempio dell’eleganza politica. Ma chi alle buone maniere non vuole sacrificare il cervello, ricorda Newton, e dice che i nani, una volta quando non c’erano i tacchi, poggiavano sulle spalle dei giganti.

C’è chi ha lo stomaco delicato: sconsigliato. Ed evitiamo la lettura alle donne incinta. Ma l’uomo di Predappio sapeva che cosa fosse la politica, e sapeva pure farla (in un certo senso). Portò sulla scena un popolo, che aveva comprato il proprio Stato a caro prezzo sul Carso e l’Isonzo. Non il suo avvocato, il suo medico, il suo commercialista, ecc. Parlava di scuola e università con un genio del calibro di Gentile. Di cultura con Bottai, al quale permise la fondazione e la direzione di una rivista, Primato, sulla quale erano tollerate forme di dissenso. E di politica estera con Ciano, suo genero. Il primo a votargli contro la notte in cui venne sfiduciato. Perché a quei tempi si usava anche sfiduciare il presidente di un governo ritenuto fallimentare – che barbarie! E si rischiava la fucilazione, non certo il posto in parlamento con relativo appannaggio.

In comune i due avrebbero, semmai, due cose: una lontana appartenenza al Psi e la passione per le donne. Ma l’uomo di Predappio non si fece regalare concessioni televisive. E neppure donne.

I paragoni possono essere imbarazzanti. Non solo per la sinistra micro-borghese dei nostri giorni, con tante idee chiare su cosa va detto e cosa no, ma neppure una per togliere al ‹‹revisionista storico›› il timone della barca. Soprattutto per chi li fa. Ringraziando Iddio, la storia non passa invano. E così ci si può allargare a qualche citazione. Avessero taluni il potere di altri, saremmo colpiti, tutti indistintamente, di nostalgismo compulsivo.

A Predappio si beve del buon vino nostrano. Della buona birra teutonica, invece, a Treviri. C’è una bella differenza. Ma da qui a là, s’era capito che sono gli uomini a fare il mondo – che gli uomini se lo costruiscono come possono, e che questo si chiama politica. E alienarsene una parte per mere questioni di bisogni non era da uomini. Dorma sogni tranquilli il nostro ministro del Tesoro: Marx, a differenza dei marxisti, non era un bacchettone. Amava i paragoni audaci. Vedendo una schiera di professorini che, solo dopo aver ridotto i loro paesi con le pezze ai fondelli, si rendono conto che la politica non può farsi fagocitare dall’economia, avrebbe imprecato ma per altre ragioni. Non certo per un’assise di liberisti e sindacalisti. Lui, filosofo, quella definizione di “economista” – considerata poi la miopia di quelli attuali – proprio non gli garberebbe.



Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 29 maggio 2010

30 maggio 2010

SILVIO E LA REALTA'

di Antonio G. Pesce- Fa una certa impressione vederlo così dimesso. Il velo della vecchiaia è calato anche sul suo volto. Gli occhi chini sul foglio, tono pacato e lento, legge la fine del sogno che aveva venduto tanto bene per vent’anni, mentre la verità già si mostra spavalda al suo fianco: numeri incontestabili e un compagno di ventura, che ha avuto abbastanza lucidità per non credere alle barzellette raccontate, tante volte, in eurodiffusione. Ora, almeno lui, il fido compagno di strada, che la strada, alla fine, s’è deciso a dividerla dall’amico birbone, almeno lui può guardare in faccia i giornalisti, un poco più sereni perché se dovranno starsene muti per legge, quantomeno non dovranno più essere ottimisti per decreto.

L’ottimismo, dice il poeta, è il profumo della vita. E d’accordo, non si può sempre veder nero. Ma esiste anche un ‹‹giusto pessimismo›› – ci ricorda Romano Guardini – ‹‹senza del quale non si fa nulla di grande. Esso è la forza amara che rende il cuore coraggioso e lo spirito operoso capace di opere durevoli››. Persuadersi che, col mare grosso, non s’imbarchi acqua, neppure un poco, o che i flutti non sballotteranno, anche un poco, la navicella, non è da ottimisti ma perlomeno da sprovveduti.

Un anno intero a convincere che la realtà era ben altra, come se non la conoscessimo quella realtà fatta di debiti pregressi e vecchiume istituito, di immobilismo sociale e sperequazioni ignominiose. E poi, tutto finisce nel modo più misero, col presidente del consiglio ridotto a passacarte del ministro dell’economia. Abbiamo vissuto al di là delle nostre possibilità? E chi, fino a ieri, invitava a spenderle, perché altrimenti nulla sarebbe ripartito? Chi, fino a ieri, si occupava di immunità parlamentare e, oggi, continua ad occuparsi di intercettazioni, legiferando come nessun governo liberale di una democrazia liberale si sognerebbe di fare, durante la più grossa tempesta finanziaria degli ultimi settant’anni?

Ecco ora svegliarsi la (tonta) addormentata nel bel mezzo del bosco dell’impunità fiscale, ormai selva oscura dell’immoralità italica, fatta proliferare nel piccolo per alimentare il grosso. E quali le idee per togliere la nave dalle secche in cui è caduta? Quale bussola per uscire dall’angosciante macchia? Far pagare chi già paga e tagliare a chi è già stato tagliato. Tutto qui. Ed è arrivato perfino il momento della CGIL che, a forza di ripetere sempre il proprio no al governo, alla fine ci ha pure azzeccato.

E pioverà ancora, e ancora, alla maniera italica, sul bagnato. Fra poco, buona parte delle università italiane potranno chiudere i battenti, o imporre rette da capogiro per il ceto medio italiano. Fra poco, la generazione dei padri morirà sul posto di lavoro e quella dei figli senza posto di lavoro: bloccate le finestre pensionistiche, bloccate le sostituzioni del personale mancante (turn over). Dalla scuola all’università, alla pubblica amministrazione. Senza istruzione, senza un lavoro.

Ne usciremo anche questa volta. Quando si tratta di far sacrifici, gli italiani non si tirano indietro. Più difficile che s’impari la lezione, e non si ripeta lo sbaglio di ieri: che la politica non vada seguita attentamente e che, in fin dei conti, si possa demandare ad altri la responsabilità civile di pensare il futuro. Il vizio tutto italiano di sparare giudizi, prendere dure posizioni nel momento della battaglia elettorale tra condomini, parenti e compagni di lavoro, per poi occuparsi del totocalcio, del superenalotto e delle ultime scimunitaggini siliconate, alla lunga non ha pagato.

Impossibile, infine, che un briciolo di pudore sia rimasto in faccia a chi prometteva una rivoluzione liberale, che è divenuta, venti anni dopo, la solita ossessione del potere. Porterebbe alle dimissioni e alla presa di coscienza di un fallimento. Ma lì dove non può la morale, può forse il politicume: del resto, la storia patria ci insegna che la ciurma non abbandona mai la nave. Abbandona, più spesso, il capitano.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 28 maggio 2010.

29 maggio 2010

LA GERONTOCRAZIA ITALIANA E LA PROTESTA A CATANIA



Anni addietro qualcuno derideva i giovani liceali per il loro impegno politico. Certo, molti di quei giovani, avviati alla politica dalle morti di Falcone e Borsellino e da Tangentopoli, hanno mutato idee negli anni. Capita, perché cambia il mondo. Bisogna vedere se abbiano cambiato anche i valori con i quale soppesavano, negli anni del liceo, il proprio mondo e le idee altrui.

Non sappiamo dire se siano stati i primi di una nuova motivazione civile, o gli ultimi di quella passata. Possiamo però dire che la mancanza di impegno politico non è giovato ad un popolo che, semmai, per poche libbre di lenticchie ha venduto non il futuro dei padri, ma quello dei figli. A che servano le appendici del consumo, quando non si può dare in dono ai figli libertà e dignità, non è dato sapere. Ma i padri che, divertiti, guardavano dai marciapiedi una gioventù in corteo, il 18 maggio scorso, dovrebbe ridere di meno e pensare di più.

Ecco l’Italia. Un paese strano, dove tra i primi artifici dello strapotere altrui c’è chi ne subirà, innanzi tutto, le conseguenze. Karl R. Popper, che non credeva nelle rivoluzioni, e aveva abbastanza sale in zucca da sapere che il potere ci sarà sempre – e non è nemmeno sbagliato che ci sia – pensava che la democrazia fosse l’unico strumento per limitare quello di chi è al potere. Un potere illimitato e, ancor più, illimitabile, è un potere tirannico. Però, in Italia può succedere che l’atto di potere col quale si decide della vita altrui passi inosservato, od osservato con divertito distacco.

Solo per capire che non si sta parlando dei massimi sistemi, citiamo il caso di Catania. Focolaio di proteste nell’ultimo mese. Innanzi tutto, quelle dei giovani della facoltà di Lingue. Un mattino si convoca al rettorato il loro preside, e gli si dice che da lì al prossimo anno bisogna fare le valigie. Si va a Ragusa. Bel posto, tra l’altro: Ragusa Ibla. Un gioiello (il potere sa indorare la pillola). Senza prendere in considerazione che circa seimila famiglie dovranno rivedere il loro piano di spese. Perché questo trasferimento? Perché si sono accorti – politici di piccolo, medio e grosso taglio – che quella è la zona più produttiva della Sicilia, se non addirittura la più ricca. E che manca non solo dell’aeroporto (Comiso non è ancora attivo), ma anche di vie di collegamento veloci per le esportazioni, con la Catania-Ragusa che è un mattatoio con le sue decine di morti all’anno, e la Catania-Siracusa che si ferma a Rosolini. Aspettando le strade, il braccio (sudato) della Sicilia che lavora e produce riceve un’università. Un polo universitario fatto di migliaia di studenti. Molte delle quali in trasferta.

Chi resta, però, non se la passerà molto meglio. Il prossimo anno potrebbero non partire i corsi. E questo per la protesta dei ricercatori, il 48% dei docenti degli atenei. Protesta nazionale contro il ddl della Gelmini. Se ce la fanno a bloccarlo –ma c’è da dubitarlo – fermeranno l’ultimo scempio di un potere che non teme più neppure la spudoratezza. La questione è che, oltre ai tagli, si vuole tagliare l’università: il progetto, caldeggiato dall’attuale ministro del Tesoro e da Confindustria, è avere atenei con solo il 30% dei docenti, e il restante a contratto e progetto. Finiti i quali, dovranno andarsi a cercare un posto di lavoro da qualche parte. Probabile, invece, che si andrà sin dal primo giorno all’estero, dove già gli italiani affollano gli istituti di ricerca. E non si registrano all’estero soltanto i brevetti ingegneristici (da qui uno dei motivi per cui il PIL dell’Italia cresce poco), ma le analisi sociologiche si fanno in Francia e gli studi antropologici negli USA. L’ultimo passo è che si esporti anche l’arte, magari vendendola per coprire il buco dei conti pubblici, che nessun governo ha la dignità – perché è questione di dignità ormai – di voler tappare.

Del resto, si sta censurando la stampa, impedendole di pubblicare gli atti (pubblici!) delle inchieste, e ci si sta spartendo l’ultima coscia di pollo rimasta nel pentolone nazionale, senza che un solo italiano batta ciglio. Anni e anni di paroloni, e quando è arrivato il momento? tutti in via Etnea, vecchi di un vecchio Paese che muore, a vedere i giovani contestare un sistema che si sgretola sempre più. Che già ha ceduto in Grecia. Il primo paese in Europa per corruzione, indebitamento, scarsa crescita economica e pochi investimenti in ricerca. Il secondo – ricordiamolo- è l’Italia.


Antonio G. Pesce.



Pubblicato su "L'Alba" di maggio-giugno 2010.

27 maggio 2010

NINO MILAZZO, UN ITALIANO DI SICILIA

di Antonio G. Pesce - Si presenta con la flemma tipica che attribuiamo agli inglesi. Ma si tratta di garbo, gentilezza riservata, e della moderazione che i suoi ottant’anni – sessanta dei quali passati in redazione – conferiscono ad un giornalista dalla ‹‹schiena dritta››. Non solo anatomicamente.

Nino Milazzo a Motta S. Anastasia per presentare il suo Un italiano di Sicilia (Bonanno Editore, 2009), invitato dall’assessore alla cultura Vito Caruso. Salvatore Fallica, al quale il maestro non risparmia l’imbarazzo di un pubblico encomio – sembra quasi un’investitura, il lascito di una cospicua eredità da tramandare – parla del libro come del ‹‹racconto di un pezzo di storia d’Italia vista dalle redazioni dei giornali››. I giornali in cui ha lavorato Milazzo. La storia d’Italia che Milazzo ha analizzato, organizzato, redatto, mandata in stampa. E che noi abbiamo letto, dalle colonne del Corriere, di cui è stato vice direttore, a quelle dell’Indipendente, della Sicilia. L’ordito della memoria collettiva cucito coll’ago di quella personale.

Dalla bella e delicata voce della lettrice, la giovane Margherita Aiello, scorrono anni di vita intima e collettiva, vicende umane e politiche. Milazzo, invitato da Fallica, racconta, commenta, senza mai cedere alla personale lusinga. Non si risparmia neppure l’accenno al suo adolescenziale credo fascista, quando ricorda gli anni precedenti la seconda guerra mondiale, trascorsi in Veneto. Lì dove sentì –la prima volta – il disagio di essere siciliano. ‹‹Altre prove mi avrebbe insegnato più avanti che la sicilianità richiede pedaggi esistenziali molto alti››. Li avrebbe pagati anche nella redazione dell’Indipendente, il giornale di stile anglosassone, che diventerà tutt’altro con l’arrivo di Vittorio Feltri. Milazzo ricorda l’amicizia col giornalista bergamasco, nata ai tempi del Corriere.

Poi, gli anni della P2, il giornale di via Solferino investito dallo scandalo, Feltri che va via, e le strade si dividono. Quando si ricongiungeranno, sarà la fine di un’amicizia. Milazzo non digerisce i toni antimeridionalisti che l’Indipendente fa suoi, diventando quasi il bollettino della Lega Nord di quegli anni. Lo mettono in quarantena. Si ritrova a leggere, il mattino, articoli che, da liberale, non avrebbe mai mandato in stampa. Finché dice basta dopo averne letto uno di un ‹‹disinvolto razzismo›› contro quella terra natale, la Sicilia, non accettata mai nei suoi vizi, ma neppure rinnegata nella sua bellezza, nella sua storia, nell’ancestrale voglia di riscatto.

Eppure, nella memoria di Milazzo, non c’è solo la delusione dell’Indipendente, o i giorni tristi della crisi del Corriere, seguita allo scandalo della P2 che ne vide coinvolto il direttore di allora, Di Bella, ‹‹un galantuomo che si fece tirare dentro››. Ci sono gli incontri con uomini e donne straordinari, rispettati nei loro difetti, apprezzati nelle loro grandi virtù. Il coriaceo Montanelli che, durante una passeggiata, per poco non investito da una bici, affronta di petto il pirata, senza badare al richiamo di Milazzo, anzi restandone quasi offeso: ‹‹Credi che non saprei tenergli testa?›› si sente rispondere il nostro. L’estrosa – a dir poco – Oriana fallaci, che lo investe di improperi per una correzione, tranne poi, l’indomani, abbracciarlo per avergli fatto notare l’errore. Ma, soprattutto, l’amico di sempre, Enzo Biagi. Mentre ne parla, il garbato signore del giornalismo italiano si commuove. Lo fa a modo suo, certo. Con l’eleganza di un cavaliere di altri tempi. Ma la voce trema, in alcuni passi. Le braccia, prima raccolte sul petto, ora si slegano e si aprono.

‹‹Mi ha insegnato molto›› dice volgendosi ai presenti. E poi riprende: ‹‹Gli sono stato vicino nei momenti difficili. Quando le morì la figlia Anna. Quando venne colpito dall’ “editto bulgaro”. La nostra amicizia si era cimentata negli anni del Corriere. Facevamo lunghe passeggiate per i corridoi del giornale. La cosa fu notata: Biagi non era molto gradito. Quando mi chiesero di allontanarmi da lui, reagii con violenza. Nessuno osò rifarmi quell’invito››.

Nel libro Milazzo si lascia andare un poco di più. Ma mentre parla è indulgente con chi ha piegato la schiena (e voleva che la piegasse pure lui).‹‹Posso sempre essere io a sbagliarmi›› afferma, perché il vecchio laico non vuol far di sé dogma, né delle sue scelte. Ma c’è soprattutto buon gusto, quando evita di parlare dei suoi rapporti con Ciancio e della sua esperienza a La Sicilia e Telecolor.

Un’ultima lezione di stile, ad una platea affascinata dalla classe di questo solitario del giornalismo italiano. Perché Milazzo, nonostante tutto, questo è stato. Come un vaso di ferro, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di terracotta.


(FOTO PIERPAOLO GIUFFRIDA)

PENSIERO LVIII


Le disillusioni sono il modo più doloroso, ma anche il più celere, per scrollarsi di dosso le incrostazioni del superfluo.

24 maggio 2010

LINGUE E RICERCATORI : UNICT PROTESTA


di Antonio G. Pesce -Il monastero è aperto. Dentro, poca gente. Forse potrebbe finire chiuso, tra qualche anno. Chissà. Sono le sette e mezzo, fra poco lì ci sarà il concentramento del corteo studentesco. Lasciamo la facoltà, e andiamo al rettorato. Un caffè al bar, il giornale all’edicola. ‹‹Ma è vero che Lingue se ne va?›› chiede l’edicolante. Ci potrebbe essere di peggio. Ma ancora sono le otto: tante cose non lo sappiamo neppure noi. Nell’aula 2 di Palazzo Centrale, dalle nove in poi, dovrebbero vedersi i ricercatori. Quelli che tengono in piedi l’università italiana. La metà dei docenti, insomma. Ma se li vogliono fare fuori. A Catania come in qualsiasi altro ateneo, ben’inteso. Il ministro ha deciso che l’età media dei professori associati deve calare. Qualcuno, più scaltro, dice che servono soldi. Molti soldi per un’economia che non parte. Scuola e università sono il salvadanaio. Bisogna romperlo.

Per portare il gruzzoletto a un paese di vecchi che non sa più tagliare i privilegi di una casta di corrotti, si spezzano ‹‹le reni›› ai giovani. D’ora in poi hai appena sei anni, al massimo, per fare ricerca all’università. Poi, o ti sei trovato la giusta cordata, o sei fuori. Fuori, definitivamente! mica per scherzo: cambi mestiere, secondo il ministro dell’Istruzione, della quale non si sa bene se ne abbia fatto mai uno. Ricercatori precari. Precario conviene: pochi soldi, e tante false speranze. Che sono la tagliola di ogni libertà. Chi è già ricercatore, però, ancora peggio: la meritocrazia tanto decantata, in questo caso, porta direttamente alla riserva indiana. Non vai avanti, perché nessuno ha scritto come dovresti passare tu, reclutato con le regole ancora in vigore, al ruolo di associato; ti sorbisci il peso della didattica – tu solo, perché i nuovi non dovranno; te ne rimani con lo stesso stipendio dei nuovi (e qui si vede il capolavoro del ‹‹riformismo del fare››).

Arrivano i primi ricercatori: discuteranno un documento da presentare al rettore contro, appunto, il disegno di legge Gelmini. A piazza Dante, intanto, i primi striscioni fanno capolino, i ragazzi parlottano, provano cori e ridacchiano per qualche trovata audace.

Inizia la discussione in aula. Il documento viene ritoccato. Prevale la linea morbida. A Torino e in altre sedi – magari proprio in quel momento, data la corrispondenza della protesta tra gli atenei italiani – sono stati più duri. Hanno, perfino, iniziato prima la protesta. ‹‹Altrove sono ben supportati››. E da noi? ‹‹Macché! E pensare che la protesta non è mica contro l’ateneo, ma contro un ministro che calpesta la nostra dignità››. Pagati poco, considerati meno. Secondo quello che si va dicendo nei salotti catodici, dovrebbe essere qui il futuro del rilancio economico italiano.

Il documento viene approvato. Se il ministro non abbandona le sue velleità, i ricercatori potrebbero rinunciare al carico didattico. Che, in soldoni, significa l’impossibilità di far partire i corsi. Niente lezioni, facoltà ferme. Università intere rimarrebbero al palo. A Catania, si parla già di quattrocento firmatari. Nulla di ufficiale, ma c’è da crederci: questa volta non ci sono altre vie d’uscita. E neppure i soldi per alimentare lontanissime ‹‹speranze››.

Si sentono, intanto, dei cori. Il corteo dei ragazzi di Lingue s’avvicina. Si va in piazza Università ad attenderli. Il camioncino con le casse. I cori non sono tutti chic, ma provate voi ad aver stipulato un patto con qualcuno e a vedervelo strappare in faccia! L’‹‹offerta formativa›› diceva Catania. Ora vogliono mandarli a Ragusa. ‹‹Per carità! – dice uno di loro – il ragusano è bellissimo. Ragusa Ibla, poi… ma non è questo il punto››. Quale, allora? ‹‹Con i miei genitori avevamo fatto un preventivo di spesa. Mi sono organizzato questi anni qui, ed ora? Eppoi sai che c’è?››. No, che c’è? ‹‹C’è che le università stanno diventando licei. Ecco il problema. Tu un liceo lo metti dove vuoi, ma l’università deve avere un contesto, deve essere una comunità. La vita universitaria, ecco. Con le sue biblioteche, i suoi appuntamenti culturali. E -perché no? – con la sua movida››.

Il serpentone colorato si snoda per via Etnea. Si vedono alcuni docenti. I turisti, curiosi, fotografano. Non solo cori. Anche canzoni. Sulle note di Rino Gaetano si arriva davanti Palazzo Centrale. I ricercatori li stanno attendendo. Il rettore non può ricevere nessuna delegazione. Il rettore non c’è. Il rettore non può sentirli, ma loro continuano a cantare che il cielo è sempre più blu. Hanno ragione: è una bellissima giornata.



Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 19 maggio 2010.

20 maggio 2010

UNICT SCOSSA DALLE PROTESTE: DA LINGUE AI RICERCATORI

di Antonio G. Pesce- Per un scherzo del destino, Catania potrebbe diventare, nelle prossime settimane, il crocevia di una grande protesta generazionale. Una saldatura di temi e problemi che nessuno – fosse stato il più estroso – avrebbe potuto preventivare.

Intanto, la facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Da quando ne è stato deciso il trasferimento a Ragusa, il monastero di piazza Dante è stato occupato dagli studenti che non si limitano a chiedere la possibilità, per gli iscritti, di completare il percorso formativo nella sede indicata al momento dell’iscrizione, ma non vorrebbero veder smobilitata un’altra avanguardia culturale nella non più fiorente Catania.

Ora, però, sono in agitazione pure i ricercatori dell’ateneo, strutturati e precari. Ma per cause meno ‹‹localistiche››: il ddl Gelmini sul reclutamento dei nuovi ricercatori. L’idea sarebbe quella di rendere più veloce – così l’ha spiegata la signora ministro – l’accesso dei giovani al ruolo di professore associato. Carriera che, fino ad oggi, prevede un’abilitazione nazionale e un concorso a valutazione comparativa. Nel piano del ministro, invece, l’assunzione dovrebbe avvenire per chiamata diretta degli atenei. Già è possibile intuire, oltre il fumo, dove si voglia andare a parare: di fatto, bloccare le carriere, dal momento che non si vede con quali fondi avviare le assunzioni in una università come quella italiana a cui, dalle scarsissime risorse, l’anno scorso è stato decurtato un ulteriore miliardo e mezzo.

Bloccare le carriere, dunque, e avviarne di nuove verso l’assoluto precariato, annientando così la ricerca: il nuovo ricercatore sarà solo a tempo determinato, scaduto il quale (sei anni), se non verrà assunto come associato, ‹‹opterà per un altro lavoro›› – ha affermato il ministro Gelmini nello spiegare il suo disegno di legge. Denotando, ovviamente, una scarsa conoscenza dei percorsi formativi della ricerca che, conducendo ad un’alta specializzazione, non sempre permettono marce indietro e vie alternative. Tuttavia, c’è ancora un particolare sfuggito al poco accorto legislatore. Nel ddl non si accenna al trattamento da riservare a coloro che ricercatori lo sono già ora e sono stati reclutati con le attuali modalità.

Il rischio è, dunque, che il 40 % del personale docente degli atenei – a tanto ammonterebbe, secondo l’Istat, la percentuale di ricercatori gravati pure del peso della didattica (caso più unico che raro nel sistema universitari mondiale)- si trovi scavalcato dalle nuove leve, rese, queste, ancor più precarie dei predecessori al prezzo di una speranza lontana, che diverrà chimera col progredire dei tagli economici.

Ecco perché tutte le sigle sindacali hanno indetto una settimana di agitazione tra il 17 e il 22 maggio. Si potrebbe arrivare anche ad una astensione in massa dalla didattica e dalla ricerca. A Catania, i ricercatori si sono riuniti in assemblea ieri, anch’essi nell’ex-monastero benedettino, divenuto il focolaio della protesta universitaria. Non è chiaro ancora quanti giorni di protesta vedranno coinvolti i ‹‹cervelli›› catanesi. Ma l’affluenza ai dibattiti e il massiccio scambio di email e di sms stanno a dimostrare un fronte compatto e determinato. E, soprattutto, numeroso. Di sicuro c’è una riunione in rettorato sabato 15, e altrettanto scontata pare essere l’occupazione simbolica di martedì 18, in concomitanza a quanto avverrà in tutti gli atenei d’Italia su invito delle organizzazioni sindacali. Voci, però, riferiscono anche di possibili ‹‹lezioni in piazza›› per il 19. Per ora, tuttavia, nulla di sicuro.

Un ultimo fronte ancora non si è aperto. Ma in tutto Italia i docenti della scuola superiore non sprizzano gioia, considerati i tagli già abbattutisi sul comparto, e la regionalizzazione e le chiamate dirette dei presidi che incombono sul reclutamento.

Catania, per diversi motivi, potrebbe davvero vedere lo strano incrociarsi di più fronti di protesta. Tutti accomunati, però, dalla stessa generazione che li anima: una generazione il cui unico diritto rimastole è ancora quello della protesta.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 13 maggio 2010.

13 maggio 2010

PENSIERO LVII


L'aristocrazia dello spirito si basa sulla potenza di un solo atto spirituale - il più nobile, il più valoroso di tutti gli atti; l'atto più generoso, il più fruttuoso; l'atto che è tutt'uno con l'essenza della propria autocoscienza: farsi compagna di cammino la morte.

10 maggio 2010

LA DANZICA ELLENICA E IL NUOVO ASSALTO TEDESCO

Di Antonio G. Pesce- Alla fine passa tutto dal Ponente. L’occidente, l’Europa è questo: il luogo dove cala il sole. Il tramonto. E tutto, prima o poi, tramonta. L’Europa è il destino del mondo. Qui si giocano ancora battaglie vitali per il futuro dell’uomo. Che se tali non vengono più percepite, è perché la cultura è divenuta soprammobile. E come tutte le bomboniere che ci rifilano agli appuntamenti con la parentela, o è finita svenduta in qualche pesca sicura della cloaca televisiva, o la si contempla chiusa in vetrina aspettando che un qualche evento – solitamente la morte del contemplante – lasci mano libera alle Parche – solitamente i parenti del contemplante – di far piazza pulita.

Il crollo economico della Grecia e il ruolo assunto in questa vicenda dalla Germania non sono emblematici perché ad essere coinvolti sono due stati simbolo della storia europea, più legati nell’immaginario al loro passato che non l’Italia a quello dell’impero romano. Non si tratta del razionale e, nella metafora, democratico Classico sopraffatto dal potente e decisionista Moderno. Non si danno battaglia Achille e Tristano. Non è fuori dalla storia che dobbiamo andare, ma dentro, dove palpita la vita col suo carico di problematicità, che va dipanata se non si vuole restarne avvinghiati. L’Europa sta rivivendo i vecchi problemi dello spazio vitale e della volontà di potenza, ma li rivive in modo così differente dal passato, da condizionare il nostro impegno col futuro.

Siamo spiazzati perché, dopo lo spegnersi dei fuochi sciovinisti della prima metà del secolo scorso, e l’egemonia di certi metodi storiografici quantitativi, abbiamo creduto che il Vecchio Continente fosse tagliato fuori dal corso galoppante della Storia già da quasi mezzo millennio, quando se ne scoprì uno Nuovo. Al Mediterraneo vollero sostituire il più affollato Atlantico, senza accorgersi che attorno a quella vecchia sponda la Storia stava ancora consumando i suoi sandali.

Tutto passa da qui, anzi – tutto si concentra qui. Ere di pace e terribili momenti di distruzione: l’Europa è questo corpo vivo che produce da sé medesima e gli anticorpi e i virus, e nella lotta febbricitante di quelli con questi, a volte, l’intero corpo ha rischiato la disintegrazione. Nessun altro continente può contare una potenza vitale così enorme racchiusa in un fazzoletto di terra. Nessun altro continente ha visto lotte così brutali per la conquista di spazio. Greci, in quel mondo che era allora il mondo conosciuto nei suo confini. Romani. Barbari di tutte le risme. E poi, quando le ultime emanazioni finirono, la guerra fra Stati. Tutto per lo spazio. E lo spazio è movimento. E il movimento è vita. E in un mondo virtuale, lo spazio viene segnato dal virtuale spostamento di cifre elettroniche. Ma che, traslate nel linguaggio prosaico del vivere quotidiano, sono il giogo del vincitore sul vinto. La transvalutazione di nicciana memoria c’è stata, ma ancor prima che i valori, ha interessato i mezzi.

Se qualcuno si aspetta che le tensioni prendano la forma di tenzoni cavallereschi tra i borghi, o che, ancor meglio, scendano in campo gli Orazi e i Curiazi, si sbaglia si grosso. La tecnica ci sta pian piano togliendo la possibilità di soddisfare l’ultimo grande piacere che rimane – far all’amore. Ci ha tolto già, e da tempo, la possibilità di soddisfare un bisogno atavico, ma impellente- far la guerra. Perché nella guerra, come ci è stata mostrata dal primo conflitto mondiale in poi, non c’è più alcun eroismo da cantare, nessuna violenza da sfogare. Se c’è, rimane il nulla. Il nulla morale di soldati non sempre preparati a sopportare il peso di quel fardello; il nulla di schieramenti che possono venir spazzati, senza che alcuno tra loro abbia potuto agire quale protagonista di un evento millenario e naturale. E non c’è più alcun movente per una guerra. A che pro? Niente più nazionalismi – la gente è invitata a starsene buona e in pace con tutti, le frontiere devono restare aperte, le merci devono girare, le industrie devono restare integre: sono nostre, anche se installate sulla terra del nemico. Niente più interessi economici – i profitti sono ormai ‹‹liquidi››, non si fanno più con l’industria pensante, la metallurgia, le catene di montaggio riconvertite al bellico.

Le guerre che si fanno, si dichiarano dopo anni di embarghi economici. Dopo anni di dissanguamento lento. Prima un dietro-front dell’avanguardia finanziaria. Poi si mandano a morire i giovani di un paese che desidera esportare democrazia. E finisce per importare bare.

L’identità di un popolo non è più data dalla sua storia, dalla sua civiltà o dalla sua lingua. Sono fondamenti ‹‹etici››, naufragati nella barbarie del secolo scorso. La Germania lo sa bene, e lo sa altrettanto bene l’Italia, che dopo aver cancellato ogni sentimento di identità nazionale, ora è in mano alle trovate carnevalesche di quattro accattoni (sedicenti) celtici dai baffi impastati di polenta. Ma i tedeschi hanno trovato la loro identità, prima e dopo il Muro, nella indiscutibile potenza della loro economia. Il marco non conobbe la forte speculazione a cui furono soggette tante altre monete (lira compresa), agli inizi degli anni novanta. Il marco fu per i tedeschi bandiera, inno, unità geografica e strategia geopolitica. Non la moneta in quanto tale, ma la potenza che esprimeva.

I Greci sono i primi a saggiare il nuovo corso. O l’euro naufraga, e a quel punto ognuno dovrà farsi bene i suoi conti e fronteggiare da solo le speculazioni internazionali. O l’euro diventa marco, e allora non saranno necessari i panzer di una volta. La Grecia è la novella Danzica. Se i tedeschi decideranno di non chiudersi nel loro egoismo (che però fa capolino anche tra le loro fila), e gli altri paesi europei non vorranno o non potranno seguirne la marcia, allora ci sarà di nuovo l’ assalto al potere mondiale. E questa volta, però, nel modo più sordido possibile.

È una partita a poker, ormai. E a chiunque abbia a cuore la propria sovranità conviene mettere tutto dentro. Anche duri sacrifici. ‹‹Guai ai vinti››, perché chi oggi cade (la Grecia, ma presto sentiremo il botto della Spagna e del Portogallo), difficilmente avrà più le proprie gambe per rialzarsi.

7 maggio 2010

PENSIERO LVI


Il problema non sono i capitalisti, ma i consumatori. Si accorgono di essersi rimpizzati dei loro diritti solo dopo essere ritornati lavoratorI.

1 maggio 2010

PENSIERO LV


Per alcuni il solo fatto di opporsi è ancor più importante dell'emergere della possibilità di giustificare l'opposizione medesima. Si ha una posizione, ancor prima che il reale ne imponga una. E quando il mostro si sveglia, hanno esaurito ogni tensione morale da potergli solo obiettare l'alito cattivo.