"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

26 novembre 2008

PENSIERO XXXVII. Sul materialismo



Gli unici filosofi che possano spiegarci bene - tanto bene da potercelo pure provare - cosa sia la più stretta forma di immanentismo, il riduzionismo fisicalista, il materialismo tout court, sono gli animali. Che, come è noto, non parlano. E non se ne accorgono neppure. Forse a causa di ciò che sanno.



14 novembre 2008

PENSIERO XXXVI



Crederò che la vita non valga la pena di essere vissuta, quando sarà un morto a dirmelo.


13 novembre 2008

NESSUNA CRISI ESISTENZIALE A STELLE E STRISCE


Non so quante cose obiettivamente cambieranno nel mondo con l’elezione di Barack Obama - si chiamerebbe pure Hussein, ma il primo a non usare quel secondo nome è proprio il presidente eletto – di certo, in Italia i partiti della sinistra, almeno per un po’, almeno fino a quando durerà questa invasatura generale che coglie i più mediocri – i più mediocri che siano coscienti di questa minorità, davanti ai migliori, comunque davanti a coloro che li superano per più di una spanna, almeno per un po’ non bruceranno quella bandiera alla quale, oggi, in tanti inneggiano.Per il resto, temo che in molti saranno delusi. Perché non conoscevano l’America quando ne vilipendevano la bandiera e i costumi; non la conosco oggi, che esaltano come se a vincere le elezioni siano stati proprio loro, che nelle loro rispettive patrie invece le perdono.Non ho tifato per Obama. E neppure le campagne diffamatorie del New York Time, pronto a dare del razzista a chiunque avesse opinioni contrarie a quella imperante – conosciuta la proprietà del suddetto giornale, e i suoi trascorsi, è quanto meno un vanto pensarla diversamente dai suoi opinionisti – né la mobilitazione della stampa e degli opinion leaders mi hanno fatto mutare idea. L’ho mutata da solo. All’inverso però. Da obamiano sono passato tra le fila di McCain, non solo quando è entrata in scena la poco retorica, ma assai sanguigna Sarah Palin, ma molto prima, quando ho capito quello che nemmeno Walter Veltroni ha capito, ma che il sottosegretario Urso, nell’ingenuità sbaragliante dovuta ad una congenita mediocrità tipica della politica italiana, ha sbandierato in diretta televisiva: alla domanda di Giovanni Floris su ciò che accomunerebbe Obama a Berlusconi, non ha esitato a rispondere:<<entrambi raccontano storie>>. Con l’unica differenza – e qui casca l’asino italiano, proprio dove galoppa quello americano – che Obama è il primo a non credere alle proprie.
Mettendo da parte il fatto, che uno che spende centinai di milioni di dollari in spot pubblicitari; che ha dalla sua parte tutta l’intellighenzia di un paese, nonché la quasi totalità dei maggiori networks televisivi; che un giorno sì e l’altro pure si vede osannato come il salvatore della patria dai maggiori giornali della borghesia radical-chic della Grande Mela; uno del genere avrebbe dovuto indurre il Partito Democratico Italiano a qualche semplice – ancorché semplicistica – analogia con mali nostrani; ma poi, perché Obama dovrebbe cambiare non già gli Stati Uniti d’America, bensì l’intero mondo? – come fanciullescamente crede Veltroni. Obama non è etnicamente un afro-americano. Sì, ha la pelle scura, ma non è cresciuto in quella comunità, dalla quale provengono Condolice Rice e Collin Powell, ai quali non è stato perdonato di non essere liberal. Obama è figlio di una hippy invaghitasi di un keniota, ed è cresciuto senza genitori ma con due nonni, quelli materni, chiari esempi di una middle-class che lo ha votato in massa. Culturalmente, è stato generato dalle più prestigiose università americane: non se le poteva permettere economicamente, ma se le è permesse col sacrificio e il merito: altro buon motivo per guardarlo con sospetto, dal momento che lì, nei pacchiani States, le università per i ricchi sfornano la rivoluzione del XXI secolo in salsa piccolo-borghese, mentre qui, nella democratica italiana, le migliori università sono a pagamento punto, e i posti in parlamento assegnati di generazione in generazione. Divenuto senatore, se qualcuno aveva ancora qualche dubbio sulla sua etnia liberal più che afro-americana, Obama non si fece scrupolo a dissiparglielo, battendosi per politiche abortiste che, da quelle parti, significano non dare risposte proprio ai problemi della comunità afro-americana, la più colpita tra le minoranze americane dalla piaga dell’aborto – se ciò è dovuto al fatto le donne afro-americane siano più libertine delle altre, o per atavici problemi socio-economici di quella comunità, lo lascio decidere all’intelligenza di chi legge. Infine, Obama ha conquistato la base del suo partito, ottenendone la candidatura alla presidenza, con un programma – quello che tanto piace ai tanti piacioni della politica europea – ma è stato eletto dagli americani per un altro. Molto più concreto. E di carattere economico. Niente grosse parole, nulla di rivoluzionario: riassestare l’economia americana, che soffre l’alto tasso di disoccupazione – la metà di quella italiana, per intenderci. Che poi i risultati di Obama possano avere conseguenze positive sul mondo intero, ciò dipenderà dalle strade che avrà percorso, e quella che lo ha fatto ammirare in Europa e tra i tanti “socialisti”, è proprio quella che servirà solo all’America. Non ci vuole molto a capirlo, solo un po’ di logica: un’economia chiusa in se stessa è un’economia che non sostiene le altre.
La verità è che l’America e gli americani non sono mai stati capiti. Siamo convinti che essi abbiano avuto una storia simile a quella europea, soltanto perché una buona fetta di quel popolo ha origini nel Vecchio Continente; soltanto perché consideriamo quella terra Occidente; perché, grosso modo, hanno una lingua, un costume, una cultura abbastanza vicina a quelli dei popoli europei. Ma ci sbagliamo. Gli Stati Uniti hanno avuto una sola guerra civile, che ha visto contrapposti non due modi diversi di concepire la vita umana, ma due industrie diverse: chi poteva fare a meno della schiavitù, e chi aveva bisogno di altro tempo per farlo. Non vivono divisi trecentosessantacinque giorni l’anno: appena qualche mese ogni quattro anni, durante la campagna elettorale per le presidenziali. Che i suppotters dei due candidati vivono con molto garbo, rispetto reciproco, e con spirito di partecipazione, e non già per raccattare qualche posticino di lavoro se il proprio gruppo va al potere.
Il loro uomo di sinistra è paragonabile a un nostro libertario di centrodestra; è un patriota, non ha mai preso soldi dall’Unione Sovietica – sarebbe spacciato anche come netturbino; vota a favore di qualsiasi guerra, anche di quella che ha denunciato con più virulenza, purché ci siano degli americani a combatterla; rispetta la religione, gli strizza pure l’occhio: non disdegna di andare a messa, soprattutto in campagna elettorale; chiede riforme sociali e più diritti per tutti, ma senza ledere quelli acquisiti, né trasformare quelli da acquisire in privilegi; se poi le cose non vanno in porto, come il progetto Clinton sulla sanità, getta la spugna e va avanti su altro. Tuttavia, a differenza dei nostri
liberl di centrodestra, il democratico americano vive con più senso di colpa le sue contestazioni sessantottarde, i suoi trascorsi giovanili con l’alcol e la cannabis, le sue scappatelle sessuali, e non reputa altamente riformista, ma semplicemente la cosa più normale, che una società si basi sui meriti più che sui bisogni.
L’elettore medio di Obama, poi, possiede tre o quattro armi da fuoco, alcune per andare a caccia, altre per difendersi. Non considera immorale la pena di morte: chi sbaglia paga, e buonanotte al secchio. Se è giovane o ispanico, o entrambi, si paga gli studi e acquista la cittadinanza andando in Afganistan o in Iraq, quando addirittura non lo fa che per il solo fine di esportare la democrazia nel mondo: come del resto fecero, prima di lui, Roosevelt e Kennedy – così apprezzati in Italia proprio a sinistra. Ringrazia McCain, ma voleva un giovane aitante, sicuro com’era, del resto, che nulla sarebbe cambiato. Dall’indomani dell’avvenuta elezione, il presidente eletto riceve i rapporti degli organi di sicurezza, anche i rapporti più segreti. Viene coinvolto nelle scelte dall’amministrazione uscente, come del resto era avvenuto ancor prima che venisse eletto – non si sa mai, e ciò che vale di più è la continuità.
E poi, perché Obama dovrebbe dividere con i partners europei quel potere che l’America si è conquistata con migliaia di vite umane sparse come libagione alla libertà su tutti i campi da battaglia del mondo? Perché dovrebbe salvare le economie altrui, intrise di populismo accattone, quando quella americana è così potente solo a costo di enormi sacrifici, e di scelte anche impopolari? Perché dovrebbe stargli a cuore la pace mondiale, quando l’ONU finge di non vedere, l’Europa finge di vedere, e gli altri stati vedono, non fingono e tacciono – quando non addirittura bruciano le bandiere a stelle strisce? Obama è giovane, e lo sappiamo tutti; inesperiente, e lo diciamo in pochi; ma che sia fesso non lo crede nessuno.
Ora, eletto, sta già pensando a farsi rieleggere, di vincere il secondo mandato. Come ogni altro presidente. E ha da accontentare una marea di gente, che veste USA. Alice forse, ma Obama non sta nel paese delle meraviglie. Ma in un paese che sa meravigliare, perché, diversamente dagli stanchi paesi europei, sa ancora affrontare la durezza della realtà e accettare le regole del buon senso. E che, soprattutto, si meraviglia, ma non si illude.