"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

30 aprile 2008

UN'ITALIA COMUNQUE NUOVA?

Ce ne faremo una ragione. Cioè capire quel che è accaduto e, da ciò, trarne quella tranquillità d’animo necessaria per accettare la situazione che si è venuta a creare. È dai tempi si Socrate che la sapienza del saggio dispensa notti serene, e allora la gente (non molta neppure a quei tempi) si arrovellava su questioni ben più importanti del perché una sfiancata banda di musicanti non calcherà più il palcoscenico ambito delle stanze del potere.

La sinistra radicale se ne starà fuori dal parlamento a gracchiare il suo vecchiume per almeno – speriamo, giacché trattasi comunque di cose italiane!- sei anni, e non sono tanti questi, ma quelli che ha trascorso in parlamento, a conservare un assetto, più ideologico che politico, marcio da almeno sessant’anni. Un buon dieci per cento di mora era il minimo. E non serve gracchiare contro Veltroni, come si sta facendo di questi tempi: il divorzio tra le due sinistre è stato consensuale. Soltanto, i figli di Breznev non potevano immaginare che una parte consistente, meglio dire maggioritaria, del loro elettorato sarebbe stato più progressista della loro fredda anticaglia bellica. Perché il futuro, a sinistra, si chiama PD, non ha la falce e martello, e cerca di fare politica con i militanti più che con i ricordi.

Se quei temi così cari alla sinistra radicale e per i quali ha più volte fatto palpitare il governo, fossero stati così vivi e importanti per il popolo che storicamente si è rivisto in essa, non saremmo qui a parlare di questa “catastrofe” – sapessi che catastrofe, quando ad un pugno di mangiapane a tradimento se ne sostituisce subito un altro. Se la loro gente non li ha votati, allora se ne deduce che a) o i temi non erano così sentiti, tanto da sacrificarli per altri; b) o che non venivano più rappresentati da quella classe dirigente; o che, infine, c) ce ne sono di più impellenti, come impedire al lupo cattivo di mangiarsi Cappuccetto Rosso. Io, per esempio, che non temevo i mangiatori di bambini, non mi sono coalizzato. Se gli altri tremano così tanto, eh bè … uno se il coraggio non c’è l’ha non se lo può dare.

Si dice, almeno a dar retta agli studi sui flussi elettorali, che la debacle della sinistra radicale sia dovuto a tre fattori: astensionismo, Partito Democratico e Lega Nord. Andiamo con ordine. Il primo non è stato al centro dei commenti politici, anche perché il più imbarazzante: si sa che più ci si sposta a sinistra, più ci si crede, ed è impossibile che qualcuno tradisca le compagne e i compagni lavoratori. Semplicemente, come ha detto il luminare dei comunisti Italiani, l’on. Diliberto, abbastanza scaltro da cedere in extremis il proprio posto da candidato a quel disgraziato operaio della ThyssenKrupp (che non solo non avrà auto blu, stipendi da nababbo e vitalizio sicuro, ma che magari ci avrà rimesso i soldi della campagna elettorale), semplicemente persi falce e martello, si sono persi pure quelli che ci mettevano sopra una bella croce nel segreto dell’urna. L’elettorato di estrema sinistra deve essere entrato davvero in confusione, se oltre a restarsene a casa, ha votato non solo per il ben più moderato Veltroni, ma perfino per la lega Nord, che alla sinistra sta come i cavoli a merenda.

L’on. Diliberto non si è fatto neppure sfiorare dall’idea che qualcosa non ha funzionato in trent’anni di sinistra italiana; che se perfino nel Piemonte rosso sono stati sostituiti dalla Lega, allora è davvero venuto il momento di pensare più all’arrosto che al fumo – perché del primo ne sentono il bisogno le famiglie di proletari che ormai non arrivano più neppure alla terza settimana; col secondo può accontentare i tanti fighetti della borghesia radical-chic, abbastanza ricchi per spendere in ebbrezze da idioti, durante una sola serata, quanto un povero operario per i propri miseri e ben più salutari svaghi in tutto un anno. No, l’onorevole Diliberto non crede il proletario capace di farsi quattro conti in tasca, e notare che non tanto nei trent’anni passati, ma neppure nei presenti due la fantasia al potere gli ha reso la vita meno gravosa. Eppure di fantasia, al potere, ne è andata tanta: due anni a discutere di ingerenza vaticana, coppie omosessuali, liberalizzazioni di droghe ecc. Due anni di immobilismo. Di più, molti di più. L’ultimo che provò a stare al passo coi tempi, a sinistra e prima di Veltroni, fu Enrico Berlinguer. L’unico a tirare fuori il P.C.I dalla fanghiglia sovietica senza farlo poi inabissare nella melma nichilista della borghesia illuminata. L’unico a mettere insieme il salotto bene della coreografia intellettualoide con il puzzo delle lotte in fabbrica e per le strade: come Gramsci, Berlinguer capì la forza di un intellettuale schierato – direttore di giornale, di televisione o, ancor di più, docente universitario, soprattutto negli anni del dopo Sessantotto, quelli che videro sbocciare i frutti culturali del boom economico dei decenni precedenti. È con Berlinguer che nasce quell’egemonia culturale della Sinistra, che occupa rettorati con bastoni e cattedre con libri, e con esse le menti, mentre l’altra parte della politica italiana raccattava posti nell’amministrazione pubblica, magari facendo nascere ad hoc enti statali, quando quelli conquistati dai comunisti erano già bell’e pronti – le università e le scuole.

Si obietterà che anche ora la sinistra ha i suoi servi da esibire ai comizi o per le strade, ma dove una volta c’erano intelligenze brillanti, ora ci sono cantanti, attori se non addirittura buffoni panciuti o giornalisti da strapazzo arricchiti da mamma Rai, nella quale sparlano, senza freno e senza rispetto della par condicio che decantano, la stessa persona che pubblica i loro libri e che il giorno dopo le loro maoiste trasmissioni televisive, trasformate per l’occasione in tribunale del popolo, non si farà scrupolo a querelarli da uomo politico e a pubblicarli da editore. Ieri l’intellettuale era un grimaldello, oggi un soprammobile. Ieri Gramsci, oggi Vattimo. Il decadente Gianni Vattimo, studioso insigne di Nietzsche ed Heidegger, come insigne esponente dei Comunisti Italiani. Il pensiero debole del professore di Torino sconfitto da quello sodo – dire forte e troppo; duro, invece, troppo equivoco – dei maccheroni della Lega Nord.

Berlinguer aveva mosso migliaia di intellettuali e, con loro e attraverso loro, milioni di giovani: aveva bisogno di un po’ di lazzi e di lustrini, ma la sostanza c’era. Ora, è scomparsa pure quella. Chi votava a sinistra non lo faceva, almeno in Italia, perché credeva nello scontro ideologico di cui la cultura marxista era portavoce, ma per ben più pragmatici motivi, e cioè perché credeva che quel partito fosse l’unica e la migliore forza che potesse rappresentare le istanze dei ceti meno abbienti. Quando ho visto i manifesti elettorali dell’on. Diliberto, col suo sigaro in bocca che faceva molto dandy, o Veltroni accompagnarsi ai saltelli e alle bizze di Benigni, lì ho capito che un mondo era finito. Per sempre. E che nulla, se non la convinzione dei propri militanti, poteva ormai distinguere chi è accusato di aver spettacolarizzato la politica da chi finge di non ricorrere agli stessi trucchi.

Tuttavia, a Veltroni almeno va dato un merito: quello di aver svecchiato, speriamo definitivamente, la Sinistra italiana, e di aver contribuito, per la sua parte, a semplificare il quadro politico. Del resto, perché tanti attacchi se non avesse toccato nervi scoperti? Sapeva che non avrebbe vinto, perché ancora fumanti i resti del fallimento prodiano. E vincere senza poter governare non serve a nulla: la migliore opposizione al governo di centrosinistra sono stati i suoi ministri. Quelli duri e puri. Che ora gli rinfacciano di aver distrutto la casa comune, quando in anni di governo unitario non le risparmiarono crepe. Hanno tirato la corda. Alla fine doveva rompersi. Si è rotta. Tanto peggio per chi non sente l’odore delle macerie del muro di Berlino. Veltroni sarà stato pure comunista. Fini è stato fascista almeno fino al 1990, quando lanciava l’idea del “fascismo del 2000”, che ad onor del vero col fascismo nudo e crudo non aveva poi molto a che spartire. Ma intanto il mondo è totalmente cambiato. E la politica è la più pratica tra le scienze: le soluzioni si devono accordare ai problemi, le teorie ai fatti. Se c’è qualcuno a cui i fatti non piacciono, può accomodarsi fuori e starsene a casa sua: c’è sempre uno spazio sconfinato nascosto nell’intimità delle proprie stanze.

Non ha fallito il PD ma l’Ulivo. Non funzionava il vecchio modello di centrosinistra non già questo. Se ne facciano una ragione gli esclusi, e pensino se sia ancora il caso di continuare col folclore. Che poi non ne valga la pena, lo dicono anche i loro elettori, pronti a schierarsi a favore del “voto utile” pur di non affidare la pecora democratica al lupo berlusconiano. Anni di solida vigilanza da buon pastore, e quando il lupo è tornato tutti dormivano: non se la prendono con l’unico che è rimasto sveglio.

Veltroni si trova su quella (buona) strada, che fino a ieri dalle sue parti non si stentava a bollare troppo facilmente come populista. La forma più reazionaria che un movimento politico possa assumere è quella popolare: linguaggio semplice, problemi veri, buon senso comune nel risolverli. È la prassi che prende il sopravvento sulla teoria. È la vita pratica che non ammette pianificazioni scientifiche o sedicenti tali. Ma per i figli dell’ideologia, sia di destra che di sinistra, la semplicità di linguaggio è rozzezza, i problemi veri fatti passare per mistificazioni, il senso comune come demagogia. A sinistra, poi, è dai tempi del famoso pamphlet di Bobbio su destra e sinistra che se la tirano, convinti come l’aristocrazia dell’ancien régime di essere gli unici a poter dire qualcosa, perché gli altri o non sono moralmente idonei per fare altrettanto, o non ne sono capaci intellettualmente. Intanto però la Lega Nord logorava completamente anche le ultime roccaforti del socialismo nostrano, poco reale e assai al caviale. Eppure, non erano mancate le sentinelle che avevano avvertito, e in tempo, del pericolo che montava: Cofferati a Bologna e Chiamparino a Torino, dovendo governare da sindaci, piuttosto che ragionare da compagni, avevano intuito che la sicurezza, tanto per fare un esempio, non è un tema di destra; che non tutti i cittadini godono della scorta come buona parte dei nostri (insignificanti) parlamentari; che, anche quando fosse un tema di destra, venendo ad essere proposto dalla maggioranza della popolazione, è un fatto della politica, e come tale andrebbe affrontato. Ma a sinistra, come il cugino Bloch insegna, non si ha molta simpatia per i fatti: i fatti devono accordarsi con la teoria, altrimenti alla malora i fatti.

La Lega è stata vituperata tanto quanto è invidiata. Ed è stata assai vituperata. Assai, e senza motivo. Quando si raccolgono più voti della somma dei parenti stretti, è chiaro che si ha qualcosa da dire, ed è da anni, da quasi tre lustri che la Lega ha un suo bacino di preferenze, nascosto dietro le coreografie celtiche, ma sempre pronto ad emergere alla prima consultazione elettorale. Davanti ad un fenomeno del genere, piuttosto che scimmiottarne le mosse, come pare si accingerebbe a fare il Partito Democratico, bisognerebbe sottrarre al partito di Bossi quel monopolio che accampa su talune questioni, e formulare una controproposta, cioè proporre una soluzione ma in salsa propria: non negare l’evidenza, dicendo che non c’è un problema di sicurezza in Italia, bensì dire che tipo di sicurezza si ritiene più idonea e con quali mezzi raggiungerla. O come regolare l’immigrazione. Invece, per anni è sembrato che il governo di sinistra fosse più contento delle migliaia di immigrati clandestini, che non dei cinquantamila che regolarmente entrano nel nostro paese. I fessi di turno, insomma. E quando qualcuno lo ha fatto notare – e tra i più convinti a farlo ci sono proprio i leghisti – non si sono sprecate né parole né analisi: quisquiglie da incivili.

Ora che gli incivili sono circa tre milioni - esclusi tanti altri incivili, che non hanno votato come gli incivili suddetti, ma che non è detto che non nutrano altrettanta apprensione – è difficile apparire credibili esibendosi in nebulose disquisizioni. Meglio sarebbe se ci si provasse nel ruolo di penitente che non in quello di analista. Ma in Italia siamo tutti figli di un dio minore – prendendo in prestito il titolo di un film culto per quelli della mia generazione – ed esserlo non significa essere perfetti. Significa essere sordi. Non per mancanza di udito ma per assenza di comprendonio. Come Don Chisciotte e il suo fido scudiero Sancho Panza nella terra di Annozero, avanguardia della nuova democrazia che ha da venire – quella attuale ormai è da buttare, perché hanno vinto i mulini del Berlusca – nella quale diciassette milioni di elettori saranno tutti mafiosi e incolti. Quali meriti abbia poi il nostro eroe per ergersi a paladino della democrazia non ci è dato sapere, dal momento che Sancho, pronto a scassinare gli archivi per tirare fuori dall’armadio gli scheletri altrui, poco o nulla ha fatto per ricordare i passati del suo nuovo condottiero. Ognuno fa lo scudiero di chi vuole, e c’è chi sente solo l’esigenza di fare lo scudiero e basta.

Berlusconi ha vinto. Ognuno ha le proprie paranoie, e se quindi qualche giovincello sente l’esigenza di andarsene nei paradisi della sinistra nichilista – fra i più gettonati quello zapatista – perché qui la democrazia è in pericolo, non ci sarà più libertà, finiremo tutti in campi di concentramento e altri strepitii da bambini viziati, che neppure attempati signori alla moda si fanno mancare, faccia pure. Visto che non mi è possibile farlo tornare a qualche ventennio fa, sono pronto a pagare il biglietto per la Cina: se proprio ci si deve ubriacare, lo si faccia con del vino buono. Qui siamo in Italia, i calici della libertà sono sempre stati pieni, anche quando c’erano le male annate, e se a qualcuno non basta, si faccia un giro nella grande enoteca del mondo: con proprio rammarico si accorgerà che non gustava quello nostrano solo perché ne era completamente satollo.

In linea di massima, ce l’avremmo fatta pure senza Berlusconi. Probabile che la ci si faccia anche con lui. Anzi, speriamo proprio che il Cavaliere ce la faccia, evitando a noi una recessione della quale non sentiamo proprio alcuna mancanza, e alla classe politica italiana un bel calcio nel sedere. Perché ormai sono cadute le vecchie ideologie, ed oggi nuove divisioni appaiono all’orizzonte. Divisioni trasversali, e dunque a maggior ragione pericolose. Non si è più di destra o di sinistra: semplicemente, c’è chi è furibondo. E chi lo è molto di più. Punto. Militanti motivati più dalla stagnazione e dal caro vita che da libri sui privilegi della casta o da improvvisati Masanielli.